lunedì 23 febbraio 2015

23 febbraio 2015 - Aspettare

Lo scorso 31 dicembre non ho festeggiato Capodanno. Sono andata a dormire senza aspettare la mezzanotte, e quando mi hanno svegliato i botti mi sono girata sull'altro fianco, infastidita, per riaddormentarmi subito dopo.
Nel pomeriggio, però, ho salutato degnamente il 2014 prendendo una cioccolata con la mia amica Nicoletta.
Avevo lasciato la bici fuori, legata a un palo, e quando sono uscita l'ho trovata sdraiata a terra. Era scivolata piano piano.
"Si è messa comoda come un cane fuori dal supermercato! Sarà stata stanca..." ha detto Nicoletta.
Un'immagine che mi è piaciuta moltissimo. Avrei voluto che venisse in mente a me.

Non è venuta in mente a me ma colgo lo spunto.
Pensate che bello: andate in giro in bici, fate qualcosa da qualche parte, e la bici - fingiamo che non esistano i ladri - vi aspetta fuori, paziente. 


​Biciclette in paziente attesa all'esterno della Stazione Centrale di Amsterdam

Le cose hanno una stabilità, una pazienza che io trovo consolanti.
Forse per questo siamo diventati consumisti.

Immagine da Google: la raccolta di scarpe di Imelda Marcos

E come lasciamo la bici fuori, aspettandoci di ritrovarla lì, fedele, possiamo allacciarci una catenina al collo al mattino, prima di uscire di casa (di nuovo: astraiamoci dalla presenza dei borseggiatori).
Una volta pensavo che così fosse l'amore vero: come una catenina d'oro. Puoi vivere la tua giornata sapendo che c'è, senza doverci pensare. Poi,a sera la ritrovi, prima di andare a dormire.
In realtà, come ci ha insegnato De Gregori, 


gli amori e le catenine si spezzano in un secondo. Ma noi astraiamo.

E pensiamo ai cagnolini - quelli che attendono le loro padrone all'uscita dei supermercati.
Se mai lavorerò su un progetto fotografico (come ho imparato lunedì scorso, si chiama "portfolio"), farò questo: mi apposterò nei pressi dell'Esselunga, del Carrefour, della Coop e anche di Lidl e riprenderò i quattrozampe legati fuori.
Non tutti si sdraiano, rilassati come la mia bici. Per la verità, quasi nessuno.
Quelli che ho visto io in genere stanno in piedi e spiano all'interno del negozio, fremendo di tensione e apprensione.
Alcuni scodinzolano sulla fiducia - ma non a chi cerca di consolarli: festeggiano l'idea del padrone che tornerà.
Alcuni tacciono e sopportano, stoici.
Altri non si trattengono, e uggiolano e piangono senza vergogna.
Ma per fortuna ci sono, questi cagnolini in attesa: stamattina ho fatto un primo giro di ricerca per il mio portfolio bau, ma non ho trovato nessuno.
L'uscita del super mi è parsa assai abbandonata e squallida.


Chissà invece come erano belle le uscite dei saloon del Far West, con tutti quei cavalli legati fuori ad aspettare i cow-boys...
Quando ero bambina, e nutrivo una passione smisurata per gli equini, non mi capacitavo che i loro padroni se ne potessero separare, neanche per il tempo di un whisky al bancone


Sognavo di entrare nei film, e abbracciare tutti i cavalli legati al palo.

Non ho mai abbracciato i cavalli, ma fino a qualche anno fa facevo molte coccole ai miei gatti, che mi aspettavano tranquilli a casa mentre ero fuori, a vivere la mia vita.
Uscivo al mattino, prendevo l'autobus per andare al lavoro, insieme a tanti altri milanesi.
Pensavo a come ci distribuiamo per la città, 

Milano in tram - Milano, 1980 (ATM - DA)

lasciando le nostre case vuote.
E a tutti i gatti che rimangono nelle nostre case, a marcare il territorio della nostra assenza.
Avevo scritto questo

L’assenza

Quando al mattino ci distribuiamo per le vie della città, a piedi, in macchina o in 

metropolitana, e viviamo la giornata come dobbiamo, come possiamo, dietro alle porte blindate 

chiuse a chiave lasciamo i custodi delle nostre case vuote e silenziose, i gatti.

Mentre lavoriamo, studiamo, o corriamo in faccende ai quattro angoli del mondo, non ci 

sfiora il pensiero di loro, soli nello spazio che ci vede assenti, momentaneamente abbandonati tra la 

camera da letto e il bagno, tra la cucina e il salotto buono, a regolare i loro movimenti secondo il 

ritmo arbitrario delle finestre chiuse, delle porte accostate, mentre cercano un posto, un modo per 

passare il tempo.

Cosa fanno, i gatti, quando non ci siamo?

Odono rumori a noi ignoti, la traccia sonora che avvolge casa nei giorni feriali: il brusio del 

mercato che sale dalla strada; i passi della vicina sul pianerottolo, quando torna con la spesa che noi 

facciamo solo il sabato; magari il ladro che tenta la nostra serratura, con la mascherina nera sugli 

occhi, e loro lì, dall’altra parte, a baffi sollevati, guardano abbassarsi la maniglia e forse spariranno 

sotto il letto alla vista improvvisa di uno sconosciuto, forse sospireranno di sollievo quando lo 

sentiranno allontanare, di soppiatto.

Oppure no. I gatti sono indifferenti.

Indifferenti come noi, che al ritorno ignoriamo i segni delle loro azioni. Il topo di pezza 

ricomparso sotto il tavolo dopo mesi di segreta latitanza, la ciotola vuota, il leggero infossamento 

sul cuscino, sporco di peli, ancora leggermente caldo, appena sfiorano il nostro sguardo, la nostra 

considerazione.

D’altronde, già lo sospettiamo, applicarci a tali misteri è inutile. Come sapere delle nostre 

case vuote? Come sapere dei gatti?

Li guardiamo, mentre seduti di fronte a noi stringon le palpebre, perduti ai nostri occhi 

anche se presenti, e comprendiamo.

Quello che i gatti fanno in nostra assenza non lo potremo mai sapere.


E questo, che ho scritto io, è solo la brutta copia della poesia della Szymborska - che, naturalmente ai tempi non avevo letto.
Ancora una volta oso accostare i miei scritti a quelli di un premio Nobel!

"Il gatto in un appartamento vuoto" 
di Wislawa Szymborska

Morire – questo a un gatto non si fa.
Perché cosa può fare il gatto in un appartamento vuoto?
Arrampicarsi sulle pareti.
Strofinarsi tra i mobili.
Qui niente sembra cambiato,
eppure tutto è mutato.
Niente sembra spostato,
eppure tutto è fuori posto.
E la sera la lampada non brilla più.
Si sentono passi sulle scale,
ma non sono quelli.
Anche la mano che mette il pesce nel piattino
non è quella di prima.
Qualcosa qui non comincia
alla sua solita ora.
Qualcosa qui non accade
come dovrebbe.
Qui c’era qualcuno, c’era,
e poi d’un tratto è scomparso,
e si ostina a non esserci.
In ogni armadio si è guardato.
Sui ripiani è corso.
Sotto il tappeto si è controllato.
Si è perfino infranto il divieto
di sparpagliare le carte.
Cos’altro si può fare.
Aspettare e dormire.
Che provi solo a tornare,
che si faccia vedere.
Imparerà allora che con un gatto così non si fa.
Gli si andrà incontro come se proprio non se ne avesse voglia,
pian pianino,
su zampe molto offese.
E all’inizio niente salti né squittii.
Adesso io di gatti non ne ho più. Neanche più quelli.
Però di tanto in tanto curo il micio Amore della mia amica, quando lei è in viaggio.
L'ultima volta, in occasione di una crociera nei Paesi Arabi, ho scattato questa foto dell'appartamento vuoto


Vi siete mai aggirati nella casa vuota di una persona che vi è cara?
Tutto sembra sospeso nell'attesa del ritorno. Senti nell'aria l'odore dell'assente...
Un'esperienza da brivido, che ti fa credere all'esistenza dei fantasmi.
Forse, i fantasmi sono persone che aspettano di tornare con più forza degli altri.

Chiudo con un ricordo.
La mia amica Lorella di Roma lavora in un istituto di assistenza a persone con handicap di vario genere.
Parlava dei ragazzini down, anni fa, e della voglia matta che hanno di fidanzarsi.
"Bisogna aspettare!" diceva lei, per tenerli buoni.
"Ma aspettare cosa? Aspettare quanto?", chiedevano loro.
"E che ne so, io?" ribatteva Lorella. "Vedete me, che ho cinquant'anni, e ancora sto aspettando..."



Con questo - so che non aspettavate altro - vi auguro


Buona settimana!

lunedì 16 febbraio 2015

16 febbraio 2015 - Numeri

Nella mia vita precedente ho fatto un viaggio in Puglia.

Passeggiavamo per Lecce, e in una via del centro ci siamo imbattuti in un bel palazzo antico, in corso di restauro.

Inline image 2
Particolare architettonico

Per curiosità ho messo il naso dentro.
I muratori - come dubitarne? - ci hanno sbarrato il passo. 
Parlando - ma neanche poi tanto: erano muratori abbottonatissimi - abbiamo scoperto che il palazzo era in vendita. "E a quanto lo vendono?" ho chiesto, tanto per curiosità.
"Guardi, chieda in agenzia..." hanno tagliato corto loro.
E dunque, visto che non c'era trippa per gatti, con tutte le mie curiosità insoddisfatte me ne sono andata.

Ma quei muratori avevano ragione: cosa me ne faccio di sapere il prezzo di un palazzo storico del centro di Lecce, se guadagno il guadagno di una bibliotecaria?
Tre miliardi, cinquecento milioni... Numeri che a me non dicono niente. Rappresentano solo la misura delle mie impossibilità.

E così, quando mi imbatto in certi trafiletti "matematici" dei giornali femminili - la mia principale fonte di acculturamento, come ho già raccontato - che senza contestualizzazione, senza punti di riferimento, riportano una nuda serie di cifre, io mi indispongo. 
Quei numeri mi annoiano. Non mi dicono assolutamente niente. Le redattrici ritengono che sia interessante comunicarci: "Numero delle stelle in cielo: centomila milioni". 
Io, invece, lo trovo assolutamente astruso.


(questo è molto meglio, e va avanti un'ora buona!)

Quanti denti mi rimangono in bocca? Questo è un numero importante per me.
Quanti piani mi rimangono da scalare? Anche questo è fondamentale, quando si rompe l'ascensore (tra parentesi: io abito all'ottavo).

Un'altra cifra molto interessante: cento miliardi.
Un numero che ho appreso da poco: dalla comparsa del primo uomo (un concetto scientificamente piuttosto vago, lo so), sulla Terra si sono affacciate cento miliardi di anime.

Da Google: opera di Anthony Gormley

Ma io non sono una redattrice di Marie Claire: offrirò un contesto.
E dunque dirò: ho sempre pensato che la fine del mondo si scatenerà quando il numero delle persone sopra la terra sarà pari al numero di persone sotto la terra. Questo perché, in un ipotetico immenso grafico con la x e con la y, 


Dio si ritroverà senza più anime da riciclare, quindi si stuferà e dirà "Basta!".
Ma sulla terra siamo solo poco meno del 10% della cifra totale


Cento miliardi tutti insieme non potremo mai starci, sul nostro pianeta.
Quindi: la fine del mondo non ci sarà mai.
Contenti?

Un altro contesto per la stessa cifra:
Sono sola. Non ho mai incontrato la persona giusta.
Ma fra cento miliardi di persone, di tutti i tempi, su tutte le latitudini, sarà pure esistito quello che sarebbe stato felice di passare la vita accanto a me, da bravo compagno, senza farmi del male e senza farmi pentire di essere nata?
Certamente sì, è matematico, è statistico.
E dunque, davanti a questo infinito, il mio cuore non si spaura, anzi si consola: se sono sola, è soltanto un caso.

Un altro numero interessante, che ho imparato ad un corso di aggiornamento che ho seguito poco tempo fa: 10.000.
La relatrice ha detto: diecimila ore per un talento.
Così so quanto ha dovuto studiare Gabrielle, la bravissima soprano che ha cantato la Norma nella produzione locale in cui io ho fatto la comparsa, lo scorso fine settimana.

Inline image 1
Gabrielle Mouhlen in Norma

Se si considerano quattro ore al giorno, quanti giorni per imparare una qualsiasi cosa?
Meglio iniziare da piccoli...

Immagine da Google: gatti che imparano ad essere gatti. Una faticaccia!

E qui do gli ultimi numeri di oggi: sempre allo stesso corso, ho imparato che in un minuto si dicono in media 150 parole per esprimere 3 concetti.

Quanto tempo impiegherete, voi, a leggere questa mail?



Due parole:

Buona settimana!


lunedì 9 febbraio 2015

9 febbraio 2015 - Le cose

Quando ero bambina,  entrare nei negozi di ferramenta non mi piaceva.
Mi respingeva l'odore del metallo, e l'idea della durezza della merce venduta mi metteva in allarme, quasi dovesse cadermi tutta addosso all'improvviso.
Invece, entrare nelle panetterie e nelle pasticcerie era una festa. Triste, perché non potevo portare via quasi niente, però l'odore, la vista, e pregustare il sapore... Un paradiso!

Date queste premesse, avrei mai potuto lavorare in un'officina meccanica?
Naturalmente no.
E da un fornaio? O in una pralineria?
Sarei già morta di piacere, o di obesità.


Una biblioteca rappresenta un buon compromesso.
Sono circondata da oggetti che mi piacciono, e che non fanno male al mio fisico. Magari, anzi, fanno bene alla mia mente e al mio spirito.

Dirò anche che, col tempo, mi sono resa conto di un ulteriore vantaggio.
Se dovessi possedere tutti i libri che ho letto, non avrei spazio per vivere, in casa mia.


Un  particolare del mio sgabuzzino

E allora, per così dire, ho fatto del posto dove lavoro la mia casa.
Lì, possono stare comodamente tutti i libri che mi piacciono. E anche quelli che non mi piacciono.
Noi bibliotecari, in fondo, siamo persone democratiche e pacifiche.

Ma cambiamenti epocali si stagliano per noi all'orizzonte.

Tempo fa, una mia amica mi ha segnalato questo articolo del Guardian sulla Libreria Digitale del Politecnico della Florida, 


e mi ha chiesto cosa ne pensassi, in quanto bibliotecaria.
Io ho girato la domanda alle mie colleghe, che mi hanno risposto:

"Scaffali vuoti? Opere unicamente in digitale? E che libri ruberebbero, gli utenti? Gli studenti che pagine sottolineerebbero, sui libri pubblici? E su che poltrone si stravaccherebbero, per studiare?"
Il che certamente ci illumina sulla resistenza psicologica e sui dubbi professionali che noi tecnici del campo avanziamo a proposito del digitale.
E poi, diciamocelo chiaramente: che fine faremmo noi bibliotecari, se sparisse la fisicità del libro?


       
Immagini da Google: ex bibliotecari, rispettivamente, del Comune di Londra e del Comune di Bangkok

Speriamo che in qualche modo ci sappiano riciclare.

Come lettrice, devo dire che il mio atteggiamento nei confronti di e-book e di e-reader è diverso.
Li adoro.
Non perché sia giovane mentalmente, ma proprio perché non sono più tanto giovane fisicamente.
Non ci vedo più troppo bene?
Allargo il font del libro.
I libri sono pesanti da reggere e da trasportare di qua e di là?
L'e-reader è leggerissimo e contiene centinaia di libri.
Se leggi a letto, il libro è scomodo da maneggiare, sia che tu giaccia sul fianco destro, che sul lato sinistro.
L'e-reader lo giri e rigiri come ti pare, ed è sempre visibilissimo e maneggevolissimo.
Una goduria.

Ma c'è un aspetto dell'e-book che, se da un lato non mi attrae, dall'altro mi agghiaccia.
E-book ed e-reader sono come la nostra testa, coi suoi contenuti.
Pensiamo una cosa? La cosa ci appare.
Non la pensiamo più?
Scompare.
Ricordiamo una persona? Vediamo la persona.
La dimentichiamo? La persona per noi è come morta.
Con buona pace dell'inconscio di Freud.
Allo stesso modo: smettiamo di leggere un e-reader?
Lo spegniamo. E l'e-book dove va? Nell'inconscio della macchina?
Quando abbiamo finito di leggere l'e-book, chiudiamo il file. 
E il romanzo che abbiamo terminato per noi è come morto. Intendo dire: fisicamente seppellito. Sparisce alla nostra vista.
E i nostri ricordi di quanto abbiamo letto si accendono nella nostra mente come poco prima le pagine virtuali nell'e-reader.

Mentre il libro di carta oppone una resistenza fisica alla nostra trascuratezza che lo rende immortale.
I primi stampati del '500 continuano a esistere, che noi li apriamo o no.


Da Google: Museo Gutenberg di Magonza
I papiri egiziani ci sono ancora.
Intendo dire: i libri sono eterni. Contrariamente a noi: sono lì per sempre.
Li finiamo, li chiudiamo, li mettiamo lì su uno scaffale, e rimangono nelle nostre case, nel bene e nel male.
E i personaggi della storia?
Vivono nel libro chiuso in una contemporaneità di prima e dopo che ha il sapore dell'eternità e del divino.
Se un occhio umano non passa sulle righe dei libri, la storia è compresente a se stessa in ogni secondo, dall'incipit al finale.

I libri sono più grandi di noi, e divinamente disumani.

A questo proposito, vi offro un racconto che ho scritto tanto tanto tempo fa, e pubblicato, guarda caso, in una mini raccolta self-published su Amazon:


L’eternità 

Re Aroldo, sentendosi ormai vecchio, voleva capire che cosa fosse l’eternità. 

Si rivolse quindi al vescovo, e lo invitò a cena a palazzo. 

Da un capo all’altro della lunga tavolata, occhieggiando un piatto di lumache, il vescovo gli 

«È molto semplice, sire. L’eternità è il tempo senza fine dopo la morte, quindi dopo il 

Giudizio Universale. È l’Inferno o il Paradiso per sempre, a seconda di quanto abbiamo meritato su 

Poi estrasse un animaletto dal guscio e se lo portò alla bocca. 

«Tutti credono all’Inferno e al Paradiso?» chiese Aroldo. 

Il vescovo masticò una, due volte, poi rispose: 

«No, non tutti. In compenso, alcuni credono anche nel Purgatorio. In Purgatorio il tempo 

passa come sulla terra: si trascorre lì un certo numero di anni, poi si può godere dell’eterna presenza 

Quindi, invitò un filosofo a passeggiare con lui nel parco. 

Rivolgendo lo sguardo dei suoi occhi azzurrissimi su un punto imprecisato oltre il naso del re, 

«Nell’eternità non esiste il tempo come lo intendiamo noi, sotto la specie di passato, presente 

e futuro. Non esiste neanche lo spazio. Tempo e spazio sono le due dimensioni di cui la mente 

umana si serve per percepire il mondo e comprenderlo, ma non sono assolute. Cosa ci sia oltre il 

tempo, però, nessuno può affermarlo con certezza. 

«Probabilmente, ciascuno di noi si raffigura l’eternità in modo diverso, a seconda della 

potenza dell’intelletto e dell’indole di cui è dotato...

«A mio avviso, l’eternità è l’aspirazione della nostra anima, che oppressa dall’hic et nunc 

della vita di ogni giorno, in quanto scintilla dell’infinito, desidera tornare a congiungersi con la 

Qui, il filosofo chiuse gli occhi sul paesaggio di foreste e campi che si estendeva ai loro piedi 

Il giorno seguente, i banditori di corte raggiunsero i quattro angoli del regno e si appellarono 

ai sudditi di ogni età, sesso e ceto, perché si presentassero al cospetto del re e gli esponessero 

l’immagine con cui la loro mente si raffigurava l’eternità. 

Primo tra tutti venne il boia che, posto un ferro di tortura nel fuoco di un braciere, quando fu 

incandescente lo ritirò e lo mostrò al re dicendo: 

«Io penso che quando appoggio questo sul petto di un uomo, il tempo che glielo lascio 

«Grazie, boia» rispose Aroldo chiudendo gli occhi, «Capisco perfettamente checosa intendi, 

Una ragazza dai ricci neri e gli occhi ardenti si avvicinò leggera al trono, e disse: 

«Sire, io sono innamorata, e sento che il mio amore non avrà mai fine. Sento che se anche 

morisse colui che amo, lui continuerebbe a vivere in me, e lo porterei al di là del tempo. Questa per 

Sorrise re Aroldo, e annuì contento, e nel congedarla ringraziò la giovane di cuore. 

Fu la volta di uno stampatore, che si presentò davanti al trono reggendo un libro singolare su 

Questo libro era così grande che il dorso si incurvava descrivendo un cerchio perfetto, di 

modo che, non protette dalla copertina, che non c’era, la prima e l’ultima pagina arrivavano a 

toccarsi. Per la verità, prima e ultima pagina non si distinguevano in nessun modo: il libro non 

«Ho già capito cosa intendi, stampatore» disse il re prima che il suo suddito potesse aprire 

bocca, «Non avertene a male, però, se ti dico che il tuo libro è come una ruota che gira, e una ruota 

che gira si ripete sempre uguale, non è un’immagine dell’eternità!». 

«Certo, mio sire, ne convengo» rispose lo stampatore. «Immaginate però che non sia un uomo 

a leggere questo libro. Noi dobbiamo passare gli occhi sulle pagine riga per riga, una parola dopo 

l’altra, e la storia si svolge nella nostra mente con un passato, un presente e un futuro, e cioè: le 

pagine che abbiamo già letto, quella che stiamo leggendo, e quelle che restano da leggere. 

Invece, io penso a una mente ipotetica che conosca la storia a libro chiuso, se chiuso può 

definirsi questo libro. Tutte le parole in essa vivono contemporaneamente, senza che vi sia un 

Di più non riesco a dire, non trovo altre parole per spiegare» 

«Sì, sì, sì... Interessante, comincio a comprendere» disse Aroldo accarezzandosi la barba 

bianca. Quindi, alzatosi dal trono, si avvicinò al libro infinito, mise con delicatezza un dito tra due 

“C’era una volta un ladro abilissimo...”



e vi propongo anche anche una poesia di Borges, bellissima e spaventosa:


LE COSE

Le monete, il bastone, il portachiavi,
la pronta serratura, i tardi appunti
che non potranno leggere i miei scarsi
giorni, le carte da gioco e gli scacchi,
un libro e tra le pagine appassita
la viola, monumento d’una sera
di certo inobliabile e obliata,
il rosso specchio a occidente in cui arde
illusoria un’aurora. Quante cose,
atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi,
ci servono come taciti schiavi,
senza sguardo, stranamente segrete!
Dureranno piú in là del nostro oblio;
non sapran mai che ce ne siamo andati
.


Sono sicura che apprezzerete la mia presunzione: accostare una mia creazione a quella di un premio Nobel!
Ma tanto, che importa?
In uno scenario da terza Guerra Mondiale, non verrà più erogata la corrente elettrica, e tutti i server e i terminali del mondo rimarranno spenti.

Basta blog.
Basta e-book.

Eternità


Buona settimana!


Silvana

lunedì 2 febbraio 2015

2 febbraio 2015 - Camminare sui teschi

Vi piace Sophie Calle?


Dire che a me piaccia non è del tutto corretto. Piuttosto: la confondo con me stessa. 
Fa cose che avrei fatto io - forse - se fossi stata un'artista. E una o due volte mi sono venute idee alla Sophie Calle (ma forse erano davvero sue, e col tempo me ne sono dimenticata).

Ad esempio: tempo fa ho immaginato di mandare un invito pretestuoso e misterioso a tutti i miei ex, e di riunirli tutti in una stanza. Chissà cosa si direbbero tra loro? Chissà cosa farebbero? Arriverebbero mai a dire una parola di me? E io, a spiarli di nascosto così, tutti riuniti, cosa proverei?
Tutte domande vane. E' un invito che on manderei mai. Anche perché con i miei ex non riempirei una stanza. Al massimo, un'archeologica cabina del telefono.


Immagine da Google

Invece, con le amiche che ho perduto (amici maschi ne ho avuti pochissimi, chissà perché), potrei riempire un caravanserraglio.
Pochi giorni fa mi sono imbattuta in questa foto


Thai artist Nino Sarabutra laid down 100,000 hand-made miniature porcelain skulls on the floor and asked art gallery visitors to walk on them. - Immagine e didascalia da Google

e ho pensato che rappresentasse perfettamente la situazione.

Si tende a pensare che i rapporti d'amore siano labili, difficili e minati alla radice da intimi vizi. Per contro, si idealizzano i rapporti d'amicizia - puri, disinteressati ed eterni.
Che luogo comune! Che illusione!
Le amicizie, secondo me, sono molto più simili agli amori di quanto si creda comunemente - intendo dire: sono caratterizzate dagli stessi vizi.
Ad esempio: un'ex amica anni fa mi disse "Non potrei fare mai legare con la tale perché è brutta".
Al momento, questo mi è parso un pensiero stupido e superficiale.
In realtà, se considero le mie amiche, non ne ho neanche una che trovi fisicamente sgradevole, e se penso alle persone che mi repellono, confesso che d'istinto sento che sarebbe difficile trascorrere del tempo piacevole con loro. Quindi, non le ho mai cercate.

Un altro vizio tipico dei rapporti d'amore: la gelosia.


Non siete mai stati gelosi di un amico? E' la cosa più comune che ci sia, soprattutto in età giovanile. Non ho niente da aggiungere.
Per non parlare dell'invidia. Ma qui si spalancano voragini di orrore, non ci voglio guardare. Non oggi.

Oggi si parla di teschi.
Cioè, di amicizie che si perdono.
Perché le amicizie finiscono, come gli amori. 
Non tutte, non sempre. Però finiscono.

E quindi, come diceva Tolstoj - più o meno: le amicizie nascono tutte allo stesso modo, ma muoiono ciascuna in modo diverso.
Non potendo generalizzare, racconterò in breve qualche caso che è capitato a me:

Daniela


L'ho conosciuta a un corso di Portoghese del Comune di Milano.
Aveva una decina di anni più di me.
Era vivace, curiosa, attiva. Diversamente dalla maggior parte delle persone, non le bastava ascoltarsi mentre parlava, ma mi spronava continuamente a rispondere alle sue domande e a esprimere le mie opinioni.
Insieme abbiamo studiato portoghese, poi abbiamo fatto un corso di fotografia, siamo andate al cinema, sono andata a trovarla al mare, in Liguria.
Mi è stata vicina in un lungo momento di depressione.
Sospetto che amasse occuparsi di persone che non stavano troppo bene, per sentirsi più fortunata.
Infatti, quando ho cominciato a stare meglio lei è scomparsa.
Dicono che gli amici veri si vedano nel momento del bisogno. Io dico che molti si vedono anche nel momento del successo.

Liliana

Abitava nel mio cortile, quando ero piccola. Siamo state bambine nello stesso posto.
Era aggressiva, competitiva, maschiaccia, molto intelligente.
Siamo state vicine soprattutto dopo che lei ha rotto con la sua famiglia per vivere il suo amore diverso.
A ripensarci, mi chiedo cosa mai abbiamo trovato l'una nell'altra. 
Come pure succede negli amori, dopo la rottura di lei mi sono rimasti in mente solo il sarcasmo e le prevaricazioni.
Non ricordo di preciso perché abbiamo rotto. Penso per colpa di un grosso malinteso. Lei ci ha messo la sua voglia di sfruttarmi per ambizione, io il mio lassismo, in occasione di un concorso per giornalisti RAI.
Ancora adesso, se ci incrociamo per strada, mi spavento. L'odio che prova per me posso quasi toccarlo con mano, e sono sicura che se potesse farmi del male me lo farebbe.

Immagine da Google

Devo dire che si è assai imbruttita. 
Per chi conosce il francese, vedendo lei mi si accende nella testa la parola "pouffiasse".

Fatima

Fatima era bella, bellissima, talentuosa.
L'ho incontrata a un corso di ceramica, e mi ha scelto come amica.
Non mi era ancora mai successo, di essere scelta.
Fatima era una delle persone più affascinanti che abbia mai conosciuto. E certamente la narcisa più pura.
All'inizio era affettuosa e generosa.


​Il primo, notevole lavoro di ceramica di Fatima, che ha regalato a me

Con gli anni è subentrata l'involuzione. 
Non so cosa abbia scatenato l'incrudelirsi del suo narcisismo: l'ultima volta che l'ho vista, in occasione di un disastroso viaggio in Germania, non era in grado di sostenere una conversazione perché concepiva di parlare solo lei, e diceva dell'interlocutore (cioè, di me) qualsiasi cosa le passasse per la testa, perché lei essendo una persona fantastica, anzi probabilmente l'unica persona sulla faccia della Terra, aveva il diritto di farlo.
Non ho mai più cercato altre occasioni per incontrarla


Per le mie amicizie perdute provo nostalgia. 
Ma non sempre.
Con l'età ho imparato un paio di cose.
Ad esempio, ho imparato quanto sia bello avere delle amiche-conoscenti con cui non si sviluppano rapporti viscerali, ma con cui è bello fare cose piacevoli insieme - ad esempio, per me, non ubriacarsi ma andare alle mostre.
E' bello averle, perché sono facilmente intercambiabili, e se spariscono, come per lo più avviene, non soffro tanto.

Da piccola, in una fase ottimistica da ballo Excelsior tutta mia personale, pensavo che il numero delle mie amicizie sarebbe aumentato indefinitamente, e che io avrei potuto accumularle come Paperon de' Paperoni accumula dollari d'oro.

Immagine da Google

Invece, recentemente ho imparato che il numero delle amicizie che puoi avere nello stesso momento è limitato e immutevole - anche perché il tempo di cui disponi è limitato.
Da piccola, di amica ne avevo solo una, e tutto il mio tempo era per lei.
Adesso, ho spesso l'impressione di trascurare chi mi è caro. E non mi piace.
Il numero di amiche presenti è sempre lo stesso, ma le amiche cambiano.
Per il resto, è tutto un calpestare teschi.

Quindi, grazie a tutte le mie amiche.
Grazie a quelle presenti, perché sono la mia famiglia.
Grazie a quelle che rimangono, perché sono la mia storia.


Grazie a quelle assenti, perché posso pensarle da lontano.
Grazie a quelle che se ne vanno, anche se mi lasciano a camminare sulle ossa, perché fanno spazio alle prossime, nuove, meravigliose persone che incontrerò nella mia vita.



Forse.



Buona settimana!