lunedì 30 marzo 2015

30 marzo 2015 - Voci di dentro

Forse lo sapete già: non riesco a fare a meno di sbirciare nelle finestre altrui.
Come in tanti altri casi, mi vergogno un po' ma lo faccio lo stesso.
Io non riesco a trattenermi. Si difendano gli abitanti delle case come possono.


Amsterdam
E' la curiosità per il mondo degli altri a spingermi. Come vivono, gli altri? Che gusti hanno? Come si organizzano le case? Che tesori vi custodiscono, come ci si muovono?
Come anche Nanni Moretti, mi piacerebbe visitarle tutte.


In realtà, sono sicura che moltissime case, se riuscissi a entrarci, mi deluderebbero.
Le abitazioni degli altri sono, innanzitutto, di gusto diverso dal mio. Alcune sono squallide, altre troppo pulite. Possono essere banali, o pretenziose...
Insomma, entrare in una casa d'altri è anche un rischio.


Lo stesso vale per la testa della gente.
Mi interessano, gli altri. Sono sempre curiosa di sapere come vivono la realtà. Che sensazione traggono dalla realtà. Che interpretazione ne danno.
Uno dei grandi misteri che mi arrovellava, quando ero piccola, era: "Perché io sono io, e non un altro? Perché non riesco a uscire dal mio cranio e entrare nella coscienza - ad esempio - di mia sorella? E che cosa dovrei fare, per riuscirci?"
Una semplice risposta a questo interrogativo sarebbe: ascolta quello che dicono.
La parola dovrebbe essere una produzione diretta della mente.
Ma come non tenere conto delle menzogne, delle auto-censure, delle reinterpretazioni involontarie, e chi ne ha più ne metta? 
Chi parla con te, in qualche modo, non dice mai la verità.

Diverso è, credo, se una persona parla da sola, a se stessa, seguendo un proprio treno di pensieri.
In questo caso, mi illudo di assistere a un sincero disvelamento dell'intimità cerebrale.
Ma anche qui, mi chiedo: vale davvero la pena guardare nella testa altrui?
Quando mi capita di uscire dalla biblioteca insieme alla collega che non amo, e assito al cerimoniale di chiusura che mette in atto sempre uguale, mormorando a se stessa, a mezza voce, le azioni che compie - Apri l'armadio, tira fuori la roba, spingi l'antina, gira la chiavetta, mettiti questo, controlla quell'altro - io mi rendo conto che guardare nella testa altrui può essere un vero giro nel tunnel dell'orrore


Meglio rimanere sulle proprie, e non chiedere niente a nessuno.
Tanto, ne ho già abbastanza delle mie, di produzioni mentali...

Ad esempio, io una volta parlavo abbastanza spesso nella mia mente, ma mi rivolgevo a qualcun altro. Immaginavo di spiegare a mio figlio come si fanno le cose.
Poi, giunta nullipara ai 40 anni - quella che ai tempi era considerata l'età limite per avere bambini - ho smesso di botto.
In compenso, ancora adesso spiego tra me e me che cosa sto facendo, via via che lavoro la creta. 
C'est bizarre: lo faccio in francese, perché per qualche arcano motivo immagino di essere la maestra di un corso d'Oltralpe.



​Aujourd'hui, je vous apprendrai à faire des chatons.


Forse, troppo forte è la pulsione all'immaginarsi di avere una vita diversa dalla propria, anche quando i giochi oramai sono fatti.

Poi, quando ho un'amicizia nuova - una entusiasmante -  nel mio intimo mi capita di parlare molto di me stessa a questo interlocutore nuovo. Racconto di me fatti, storie e sensazioni che avevo dimenticato, e mi sento molto ricca.

Questo mi accadeva anche quando mi innamoravo, ma è un fatto ormai lontano.

So che alcune persone hanno un interlocutore mentale fisso.
Quando ero molto giovane - ancora andavo all'università - una mia amica più grande mi aveva invitato qualche giorno in montagna, da lei, mentre era là da sola.
Ovunque andassimo, qualsiasi cosa vedessimo, diceva "Questo devo dirlo a mio marito. Lui risponderebbe così. Penserebbe cosà. Perché nel 1978, invece, ci eravamo detti questo....".
Era evidente che questo marito, conosciuto sui banchi del liceo tanti anni prima, e da cui si stava separando con dolore, aveva pervaso tutto il suo mondo, quello interno e quello esterno. Stava stampato sulla faccia delle montagne della Valtellina, e sulle pareti della caverna che era il suo cuore.


Da Nationalgeogrphic Science

Io di interlocutori fissi non ne ho.
Però, quando ho smesso di parlare al mio bambino immaginario, ho cominciato a scrivere favole.

Forse queste lettere del lunedì sono le mie voci di dentro?

Non lo so... Diciamo che è meglio lasciar perdere le domande inutili, e ascoltarsi un bel brano di Mozart.
Pensate che privilegio abbiamo: ancora oggi possiamo ascoltare la produzione mentale di un genio.
Chi ragiona con le note fa più fatica a mentire...


Buona settimana!

Silvana

lunedì 23 marzo 2015

23 marzo 2015 - Murmuration

I giorni scorsi erano perfetti.
Adesso ci sono già un po' troppe gemme - la situazione cambia di minuto in minuto. 
Ma fino all'altroieri, solo rami spogli che offrono una visibilità perfetta.



Tra i rami, gli uccelli.
Uccelli che con la nuova primavera sono più vivaci, più felici. Sembrano più numerosi, persino.
Di certo, sono tornati a farsi vedere i merli, dopo un periodo di quiescenza.
E quando i merli saltellano tra i rami spogli, sembrano gli occhi degli alberi, la loro lingua, il loro cervello.



Gli uccelli che saltellano tra i rami - o che stanno appollaiati sui cavi della luce, o che attraversano la strada, oppure sfrecciano nel cielo - a me sembrano portatori di senso. Li vedo come note su un pentagramma - ma io non so leggere la musica. Mi ricordano le lettere di un alfabeto che non conosco. Sono i simboli misteriosi del futuro.
Forse questo dipende dal fatto che discendo dagli antichi Romani? 
I Romani erano ornitomanti provetti, e prima di andare in battaglia osservavano le galline becchettare il becchime. Mangiavano di gusto? Vittoria sicura.

Si accontentavano di poco, i Romani. 
Osservare le galline? Mah...

Io, quando capita, rimango senza parole a guardare il murmuring - o murmuration - degli storni.


Non credo che ci sia un termine italiano per murmuration, ma mi piace che sia così. 
Mi sembra giusto che quello che ci dicono gli storni sia intraducibile.
Possiamo noi conoscere il nostro futuro? Possiamo nominarlo?
Certamente no.

Dunque, io mi limito a raccontarvi due storie, al proposito. Forse tre.

La prima l'ho scritta io, tanti anni fa.

Gli storni
Era stata zia Monica a metterla sulla buona strada, tanti e tanti anni prima.
Sara ricordava un pomeriggio d’estate nel giardino della sua villa, dove spesso era invitata a giocare e a fare il bagno in piscina con i cugini, e la zia che diceva, stesa su una sdraio al sole, col dito puntato verso un merlo fermo nell’erba:
“Guarda com’è bello, quel becco giallo! Io li trovo simpaticissimi, e poi sono di buon augurio: se te li vedi nel giardino di casa, portano soldi!”
Col tempo, Sara ebbe modo di verificare che la zia non si sbagliava. Ogni volta che vedeva saltellare quei begli uccelli neri nel cortile della casa in cui viveva, le arrivavano dei soldi in tasca, che si trattasse di una banconota trovata su un marciapiede, o di una scommessa vinta, o di un’eredità.
In effetti, con l’aumentare dell’età e delle esperienze, le sue osservazioni la portarono a concludere che i merli non erano gli unici uccelli dotati di questi poteri incantatori. Se sulla sua strada le capitava che dei passeri si lasciassero avvicinare più del consueto, ad esempio, erano i suoi rapporti interpersonali a trarne giovamento: un vecchio amico la chiamava, incontrava una collega simpatica che la invitava a una festa, le arrivava una lettera.
Purtroppo, esistevano anche gli uccelli del malaugurio. Una sera in cui sedeva tranquilla al suo tavolo di cucina, sgranocchiando un cioccolatino alle nocciole, davanti al balcone aperto passò in volo un gruppo di cornacchie che gracchiavano a più non posso, e proprio in quel momento a lei si spaccò un molare. Non poteva essere un caso…
Unica eccezione: i grigi, ottusi, noiosissimi piccioni. Per quanto Sara si concentrasse con zelo galileiano nell’osservazione del reale, la conclusione poteva essere solo una: i piccioni non avevano nessunissimo potere, se non quello di sporcare e dare ai nervi con il loro tubare insulso.
La visione di un documentario alla televisione, infine, le aprì gli occhi, spalancando davanti a lei una nuova, infinita prospettiva di indagine.
Il programma era dedicato agli antichi etruschi. Il conduttore, dopo aver fornito notizie risapute e di scarso interesse, quali il mistero delle origini e della lingua, l’area di diffusione e simili, disse qualcosa di illuminante in merito all’arte divinatoria: gli etruschi leggevano il futuro nel volo degli uccelli.
“Che idiota! Ma che perfetta idiota sono!”, si disse la donna, battendosi la fronte con la mano. “Come potevo pensare che fossero i merli a portare i soldi, o i corvi le disgrazie? Cosa può fare un uccello per determinare il tuo futuro? Niente! Assolutamente niente! I loro poteri non sono così forti! Però, che ci siano dei legami tra la loro apparizione e quel che accade è innegabile. Avevano ragione loro, i nostri padri. Non per niente gli antichi etruschi, nel passato, hanno trasmesso a noi romani i tesori della loro saggezza…”
Quando poi fece caso a un enorme stormo di uccelli che volteggiava nel cielo, felice, riempiendo la sera d’estate di richiami, assumendo repentinamente le forme più diverse e affascinanti, capì che se passeri e merli erano specializzati in settori specifici della vita, quali le relazioni umane e le finanze, i soli depositari dei segreti del futuro, per intero, non potevano essere che loro: gli storni.
E lei si sarebbe fatta aruspice.

Sara si dedicò anima e corpo alla messa a punto del suo metodo di interpretazione, nel quale vennero a confluire contributi di natura varia e impensabile.
Per prima cosa, come è logico, lesse tutto quello che era stato scritto sugli Etruschi, e in particolare sull’arte divinatoria come era intesa presso di loro. In seguito, si impossessò delle varianti introdotte dai maghi romani, che ne erano i diretti discendenti.
Poiché riteneva che trascurare gli aspetti tecnici avrebbe comportato una grave lacuna nella sua formazione, imparò pressoché a memoria le osservazioni sul volo degli uccelli contenute nel Codice Atlantico di Leonardo, e cercò di familiarizzare con le basi dell’ingegneria aeronautica.
Su una bancarella dell’usato scovò il saggio “Le Figure della Mente: la Lettura dei Tarocchi tra Futuro e Psiche”, di un certo Saro de Dominicis, e fu un vero colpo di fortuna, perché questo testo le aprì nuovi orizzonti. Oltre ai principi di base della moderna cartomanzia, confluirono nel suo sistema anche le teorie e le tecniche psicoanalitiche da lei ritenute più pertinenti: Jung più di Freud, senza dubbio, poi il metodo di interpretazione delle macchie secondo Rohrschach, e altro ancora.
Per acquisire una certa qual coscienza di classe, e la gravità di spirito che l’esercizio del suo ruolo richiedeva, lesse tutti gli studi sulla caccia alle streghe di cui riuscì a entrare in possesso, e numerosi verbali dei relativi processi.
Nel corso del tempo, la cultura di Sara si fece vastissima e bizzarra. La donna riempì la propria casa di libri, e innumerevoli quaderni di appunti e formule segrete. Passarono anni e anni, prima che Sara si sentisse pronta a svelare i segreti che gli uccelli custodivano sulle sorti umane.
Infine, una sera d’estate, quando il cielo aveva appena iniziato a incupirsi, lasciò libri e appunti sul tavolo della cucina, alle sue spalle, e uscì sul balcone a interpretare il volo degli storni per la prima volta.
Appena si fu affacciata, emozionantissima, gli uccelli si levarono dai tetti e dagli alberi su cui erano posati, come ad un segnale convenuto, e in formazione compatta le passarono davanti agli occhi con grande strepito di ali battute e penne, per tornare a posarsi subito dopo.
“Da sinistra verso destra”, assentì Sara col capo, “È un segno favorevole, vuol dire che mi han visto, salutano, e hanno intenzione di dire il vero.”
Di nuovo gli storni si alzarono in volo, si allontanarono da lei e poi, riuniti a punta di freccia, si gettarono in picchiata nella sua direzione per tre volte, virando verso il cielo all’ultimo istante.
“Me! Puntano a me. Sono io, quella di cui vogliono parlare. O di qualcosa di mio. In ogni caso, il discorso ha a che fare con me, l’indovina…”
Appena lo ebbe pensato, gli uccelli cambiaron figura.
Assunse lo stormo una forma di calice viva, vibrante, dai bordi superiori sfrangiati. Gruppi di due, tre uccelli se ne staccavano a tratti, fuggendo più in alto, volteggiando a spirale.
“Sembrano quasi scintille…”, li osservava ad occhi socchiusi la donna, pensando. “Ho capito!”, si disse infine trionfante, “È il fuoco! Mi parlan del fuoco! O di un grande calore…”
Ad un cenno del capo di Sara, gli storni passarono ad altro.
Proprio al di sopra del tetto di fronte, si disposero contro il cielo sempre più scuro in file ora lunghe, ora brevi, parallele all’orizzonte o impennate, che si intersecavano a tratti, e mantennero la posizione per qualche secondo, come trattenendo il respiro, per poi ritornare sugli spioventi coperti di tegole rosse.
Gli storni ripeterono la stessa figura due volte. Infine, non si levarono più in volo.
Sara li guardava a bocca aperta, perplessa. “Non ho capito niente…” mormorò, delusa di sé. “Forse mi sono sopravvalutata, avevo torto, non ce la farò mai a interpretare…”
Quindi, come per miracolo, da un angolo oscuro della sua mente ritornò a farsi vivo il ricordo, dapprima confuso, poi sempre più definito, di un pomeriggio trascorso con sua cugina Fulvia, la figlia di zia Monica, sempre nel giardino della villa. Sara si mise una mano sugli occhi e rivide tutto.
Fulvia studiava il cinese. Aperto un libro dalla copertina rossa le mostrava un disegno dicendo: “È difficilissimo. Per imparare questo ho impiegato una mezza giornata… È l’ideogramma che indica…”
“Casa!” urlò Sara, entusiasta, battendo le mani di gioia, “Vuol dire ‘casa’!”
Gli storni si alzarono in volo, come se qualcosa li avesse spaventati. Si spostarono diversi tetti più in là.
“Dunque, vediamo…”, si disse infine la donna, “Qual è il senso generale?”
E puntando le dita di una mano sul palmo dell’altra, come se stesse contando, ragionava: “Tu, caldo, casa… Io ho una casa calda? No, non ha senso. Tuo, fuoco, casa… Tua, casa, fuoco… Tua casa, incendio…”
Sara sbiancò in volto, si girò atterrita verso la cucina, e vide che le fiamme avevano già divorato tutti i mobili, i suoi libri e i suoi appunti erano andati in fumo, le pareti quasi non si vedevano più, sostituite da alti muri di fuoco crepitante.
“La mia casa sta bruciando!”, gridò.
Miracolosamente, era rimasto libero uno stretto percorso che andava dal balcone fino alla porta di casa. Sara trattenne il respiro, perché il fumo la stringeva alla gola, e vi si gettò come folle, mentre le fiamme si richiudevano dietro di lei ad ogni passo. Ustionandosi le mani sul metallo della maniglia riuscì ad aprire la porta, si precipitò nell’atrio che stava per crollare, per un soffio raggiunse le scale antincendio e le percorse a capofitto, urlando dal terrore, infine si ritrovò in salvo, per strada, sotto gli occhi di una folla di curiosi tenuti a distanza dai pompieri, tra le autocisterne e le ambulanze.
La donna si accasciò sull’asfalto con un sospiro, e prima di perdere conoscenza intravide uno stormo di uccelli che volava alto nel cielo scuro, volteggiando felice, riempiendo la sera d’estate di richiami…

E questa è la storia di Sara, che ebbe la vita salvata dagli storni.  


Una mia amica mi aveva raccontato che la figlia di pochi anni - due? Tre? - intorno al giorno del suo compleanno si era emozionata tantissimo vedendo degli storni impazzare intorno a un albero vicino alla sua finestra.
"Mamma, dove sono andati quegli uccelli?", aveva chiesto alla madre la sera dopo, davanti all'albero disabitato. 
"Eh, sono volati in un altro paese più caldo..." 
"E quando ritornano?"
"Tornano per il tuo prossimo compleanno!".
Un anno dopo, senza averne più fatto parola nel corso dei mesi, il giorno del suo compleanno la piccola è andata alla finestra a guardare l'albero.
"Mamma, ma quando arrivano gli uccelli?"

Piccola aruspice...!

Intorno al mio palazzo, in queste sere hanno ripreso a volare i pipistrelli. Devono avere la tana sotto il nostro tetto.
Per lo meno, eliminano un po' di zanzare.
Anni fa, quando ero giovane e avevo i gatti,



un pipistrello mi è entrato in sala dalla finestra aperta.
I mici si sono precipitati a guardarlo. Non stavano più nella pelliccia dalla voglia di catturarlo, hanno cominciato a fare salti indiavolati per la stanza... Ma il pipistrello è scappato via prima di lasciarsi brancare dai loro artigli
La sera dopo, alla stessa ora, puntuali, i miei gatti si sono presentati in sala, a guardare il soffitto pieni di aspettativa.

Forse i pipistrelli raccontano ai gatti il loro futuro.
Un pipistrello, d'altronde, è un topo con le ali.


Buona settimana!



Silvana

lunedì 16 marzo 2015

16 marzo 2015 - Insegnare, imparare

Io non so fare i doni.

Intendo dire: piccoli regali ne offro anche tanti, ma preferibilmente li consegno accartocciati in un foglio di giornale vecchio.
Insomma: non li so impacchettare.
Qui sotto vedete il massimo che riesco a ottenere da me stessa, con sforzo enorme, e in occasioni estremamente straordinarie.
Ad esempio, se vi sposate potreste ricevere questo da me.

Da vicino erano molto peggio...

Mia sorella invece... Tutt'un'altra storia.
Le sue confezioni-regalo sono un capolavoro di fantasia, estetica e ingegneria. E mia madre, giustamente, per farsi impacchettare dei doni si rivolge a lei.
Questo da cosa dipende? Dal fatto che mia sorella è della Vergine?
Non direi. Agli oroscopi credo per gioco, ma è difficile dimostrarne la fondatezza scientifica.
La risposta esatta la conosco bene.
In realtà, mia sorella sa fare pacchi stupendi perché gliel'ha insegnato mio padre. E ogni volta che confeziona un regalo, pensa a lui.

A me invece, per qualche motivo, mio padre non l'ha mai insegnato. Da cui la mia deficienza.
Però mi ha insegnato altre cose.
Ad andare in bicicletta, ad esempio. 

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Immagine da Pinterest

E se non ci fosse stato lui, come raggiungerei io adesso la mia biblioteca? 
E ancora: mi ha insegnato a scrivere a macchina.

Su una macchina quasi così! (Immagine da Google)

Non professionalmente, certo.
Ma se non fosse per lui, adesso io come vi manderei queste mail del lunedì?

Anche mia madre mi ha insegnato diverse cose, naturalmente.
Per merito suo, ad esempio, faccio la spesa al supermercato senza essere d'impaccio a nessuno. E non tutti hanno appreso questa regola base della convivenza, ve lo assicuro.


Oppure, quando lavo i piatti, grazie a lei so che prima devo occuparmi delle cose meno sporche, poi di quelle più impegnative.
Vi sembra poco?

A me non sembra poco.

E quando mi allaccio le scarpe. Quando accendo la luce. Quando mi cucino gli spaghetti. In ogni minimo gesto della mia vita - parlare, pettinarmi, andare alla toilette - ci sono mia madre e mio padre - o chi per loro - che me l'hanno insegnato.

Ho letto da qualche parte che, ovunque andiamo, ci portiamo dietro i nostri avi sulle spalle - immagine che sta a significare che il nostro patrimonio genetico risale dapprima ai nostri genitori, e tramite loro al primo Homo Sapiens, nella notte dei tempi.

Enea fugge da Troia col padre Anchise sulle spalle

E da Freud in poi, è tutto uno scandagliare i traumi - ma anche le influenze positive, certamente - con cui mamma e papà segnano il nostro carattere, quindi il nostro destino.

Io però mi riferisco all'area intermedia su cui intervengono i genitori: quella della gestione della vita quotidiana.
Che certamente non è meno importante delle altre.
Lo sapevate, ad esempio, che se un gatto non impara dalla madre a cacciare i topi, non sarà mai in grado di farlo?


Allo stesso modo: io so lavorare a maglia, in modo molto basic. 
Ho imparato da mia madre.
Però non sono capace di lavorare lo jacquard senza tirarmi dietro i fili sul rovescio del lavoro, perché questo non lo sa fare nemmeno lei.


Il retro di un maglione fatto da me

Doveva insegnarmi la Paola Costa, una mia compagna del liceo, ma in quattro anni che abbiamo passato insieme non mi sono mai decisa a portarmi dietro i ferri.

E dunque, si può dire che dietro a ogni nostro gesto ci sia una forma di amore - quello che provava per noi la persona che ci ha insegnato a farlo?
E quanto ci caratterizza quello che non sappiamo fare?
E i nostri amici sono nostri amici perché da loro apprendiamo cose che altrimenti ci rimarrebbero estranee?
Se chiedete a qualcuno come si fa una cosa e quello vi risponde: "Guarda su google", vi offendete? 
Io sì.

Dunque, per dimostrarvi che sono vostra amica, vi insegno una ricetta semplicissima, velocissima e molto gustosa.

Pasta alla ricotta (ricetta per due persone)

Mettete a cuocere 200 g circa di pasta.
Nel frattempo, diluite una confezione di ricotta con un po' di acqua di cottura. Volendo, potete darle una leggera scaldata al microonde.
Scolate la pasta, mettetela in una scodella, versateci sopra la ricotta e mescolate.
A seconda dei gusti, potete aggiungere una grattata di formaggio, un giro d'olio, un po' di pepe, un pizzico di aglio disidratato, un po' di origano... O anche niente.
Come direbbe giallozafferano: una soluzione geniale per quando non avete voglia di cucinare.
Se la conoscevate già, cogliete l'occasione per ringraziare chi ve l'aveva insegnata.

E io, da chi ho imparato questa ricetta? 
Da una specie di fidanzato.
Ho passato gli ultimi due giorni a scandagliarmi la memoria, per cercare di ricordare cosa io abbia appreso dagli uomini, e questo è tutto ciò che ho trovato.
Un segno evidente che con gli uomini non ho mai avuto molta fortuna.

Ce n'era uno che aveva iniziato a insegnarmi come riparare le biciclette bucate, ma non ha fatto in tempo.
Pazienza.
Tanto, di bici ne ho tre, e almeno una a turno è sempre a posto.



Buona settimana!


Silvana

lunedì 9 marzo 2015

9 marzo 2015 - Acrobati

Finalmente, la settimana scorsa ci sono riuscita. Si è avverato un mio desiderio.
Mi sono ammalata e sono rimasta a casa con l'influenza.

E' stato bello, ma come diceva la pubblicità di un famoso farmaco, mi sono persa, nell'ordine: una lezione pratica - finalmente pratica! - di fotografia in studio, una serata col coro, una serata di ceramica, una pizza con le amiche, un massaggio drenante dalla mia amica bravissima.

Ma sabato, no!
Sabato ero in ferie, non in malattia, mi sono imbacuccata da capo a piedi e sono uscita al Parco Nord col gruppo del corso di fotografia, a caccia di un mini-portfolio di 5 scatti.
Lunedì prossimo dovrò proporlo a lezione - siamo 15-20, ciascuno porterà il proprio.
A voi anticipo il mio.

Acrobati



1 - Beh, qui non è necessario nessun commento.
Al parco si viene a scatenarsi fisicamente - se si ha l'energia. 
Le ragazzine ce l'hanno.



2 - Un acrobata che si è impigliato fra i rami.
Forse Icaro.
Comunque, un acrobata giovane.



3 - Simpatici acrobati - non più tanto giovani - del sabato pomeriggio.
Però devo dire che secondo me la domenica sera è ancora più acrobatica.
In genere, la domenica sera io sento che cado inesorabilmente nel lunedì mattina. 
Non è piacevole.



4 - Acrobati caduti, dal monumento a loro dedicato.
Ma non sono caduti inutilmente.
Ne sia prova il rametto dorato, che chiaramente (avete mai letto "The golden bow" di Frazer? Io no di certo, ma so che è uno studio sull'oltretomba, l'immortalità, i riti di passaggio etc., e dice che le vie che portano all'Ade, presso gli antichi Greci, sono indicate giustappunto da un ramo d'oro) dimostra l'eternità del valore del loro sacrificio.



5 - Un acrobata vegetale, con le gambe per aria. (C'era un albero, nel giardino di mia nonna, che quando ero piccola chiamavo "Le gambe delle donne". Sembravano due gambe femminili, molto lunghe ed eleganti, che camminavano per il cielo. Quando l'ho detto ai miei cugini, hanno riso.)
O forse non un equilibrista, ma l'uomo forzuto, con le braccia levate verso il cielo.
Comunque, un acrobata.




Un P.S. che non so se potrò imporre ai compagni di corso, un irrinunciabile omaggio alla banalità stile Moccia: ecco qui una metafora degli acrobati dei sentimenti.
A voi, che non dovrete sorbirvi né la mia esposizione lunedì prossimo, né quella di tutti gli altri, mostro un paio di foto scartate.



​ 
Qui, un acrobata tuffatore. Forse un angelo.
Ma ho pensato che fosse meglio limitarmi, nelle mie interpretazioni soggettive.



Qui: acrobazie della primavera che arriva.



Qui: attrezzi degli acrobati.

Ma la scelta è andata ad altre foto. Amen amen.


​Per chi pensasse che il tema Acrobati sia originale: non è originale, e sarà scelto da molti.
Anche perché nel corso della nostra esplorazione abbiamo incontrato dei baldi giovani centauri che si sono messi a fare acrobazie, tutte per noi.



e quindi, immagino che altri fotografi siano rimasti ispirati.
Io avevo pensato a questa tematica da prima, ma tant'è.

La mia gita non è stata povera di sorprese. Ho fatto incontri inaspettati.
Nei giorni precedenti non ne avevo fatti, ma si sa che statisticamente le opportunità si moltiplicano, se esci dal letto di casa.
Quindi, racconterò che, con mia meraviglia, sotto l'elmetto di uno dei centauri ho riconosciuto il rampollo della mia amica d'infanzia Manuela (qui, spero di non fare una gaffe. Spero che il ragazzone prima di uscire non abbia raccontato: "Ciao ma', vado a fare quattro salti in discoteca e mi calo un paio di pillole, sta' serena!", perché da quello che ho scritto si capisce che non è vero).

Inoltre: indovinate a chi appartenevano le bici-attrezzi da acrobati di cui avete visto la foto poco più su?
Non potete saperlo, ma comunque: alla mia amica Isabella e al suo rampollo José! Che io cerco di incontrare con scarso successo da molti mesi.
Sabato siamo finalmente riuscite.
Abbiamo festeggiato con un bel selfie:



​(per Isa: se non ci tieni alla tua privacy posso anche toglierti il travestimento).

Qui, un altro incontro inaspettato:



E qui un altro:



In realtà, incontrare un papero nel laghetto di un parco non è una grossa sorpresa, ma chi si accontenta gode.
Ad accontentarmi, posso anche pensare che il mio sia stato un sabato perfetto.


(sottotitoli in portoghese per José!)


Buona settimana!


Silvana