lunedì 28 marzo 2016

28 marzo 2016 - Non sono Maddalene

Non c'è bisogno di essere Proust per sapere che un gusto dimenticato da tempo ti riporta con forza nel passato.
Qualche tempo fa ho assaggiato una carruba - misteriosissimo frutto - e all'improvviso ho ricordato le mie vacanze al mare di quando avevo tre o quattro anni.

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O forse, mi è tornata la memoria di una vita precedente: ero un cavallo, galoppavo e nitrivo felice, e le carrube erano il mio pasto preferito. 
Chi può dirlo.


Diverso è il caso dei cibi-feticcio - quelli che adoriamo e ricerchiamo in ogni angolo del mondo, perché ci siamo messi in testa che sono buonissimi, straordinari, e che non possiamo vivere senza, almeno un paio di volte all'anno.

I croissant, ad esempio.

Io vado pazza per i croissant.
I croissant per me sono come il sacro Graal.
Ovunque vada li compro e me ne nutro religiosamente (mai sotto casa, per ovvie ragioni: il sacro Graal lo trovate forse nel discount all'angolo?) - soprattutto in Francia bien sur.
E però, sebbene in ogni croissant io riconosca qualche caratteristica che lo avvicina all'idea platonica originaria, non ce n'è uno che risponda pienamente all'illusione che me ne sono fatta.
Perché queste brioche sono sempre troppo secche. O troppo unte. O troppo dolci. O troppo piccole. O troppo pesanti.

Ma così non è stato nella bella città di Bordeaux, nel lontano 2010.

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A Bordeaux mi sono fermata solo un paio di giorni, ma per qualche misterioso motivo mi è subito sembrata una città magica.
Sono arrivata col buio, e mi sono subito ritrovata in mezzo alle luci e ai riflessi di Place de la Bourse.


In città vedevo antichi palazzi che mi sembravano materializzarsi dalle favole che leggevo quando ero bambina.


Non c'è da stupirsi che il mattino dopo, dopo una notte passata in una pensione che trovavo piena di charme, degna della Brigitte Bardot dei tempi migliori

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La moquette, dopo la visita di BB, non è più stata cambiata

in una viuzza del centro abbia finalmente mangiato il croissant PERFETTO!
Né dolce né salato, leggero, friabile, brroso ma non pesante, lo vendeva una signora anziana metà fata turchina, metà portinaia di un giallo di Simenon.

Avrei voluto e dovuto tornare indietro e comprarne altri quindici, ma l'essere con cui mi trovavo non era in grado di capire il mio entusiasmo, e ha disapprovato quello che per lui era solo un eccesso da donna delle caverne sottosviluppata - come dubitarne.

Se qualcuno vuole tornare a Bordeaux con me per fare il tour delle boulangéries alla ricerca del croissant perduto, fatemelo sapere.
Mi pare che a Bordeaux arrivi Ryanair, che forse non è una linea da favola ma certo in molti casi rende tutto più facile.

Un altro cibo-feticcio, per me, sono le lasagne di mia madre.

Le lasagne, nella mia famiglia, vengono fatte in due occasioni: a Natale e a Pasqua.
Una volta se ne occupava mia madre, da sola.
Da qualche anno, data la monumentalità dell'opera, sono io che aiuto la cuoca, alla vigilia della festa, spiattellando con sempre maggior maestria sugo e besciamella tra i vari strati di pasta.

Le lasagne di mia madre sono un piatto che è stato perfezionato nel corso del tempo.
Anche in questo caso si è cercato il sacro Graal dell'equilibrio perfetto tra spessore delle lasagne, densità della salsa, sapidità del sugo.
E poi: se mettere o no le uova sode in memoria di mio padre, e quanto a lungo cuocerle, quanto a lungo scaldare, e a che temperatura... Tutti dettagli su cui mia madre ha preso nota, un anno dopo l'altro, per poi perdere gli appunti, o non saperli più interpretare.
Ma questo è un male di famiglia, la capisco benissimo.

Quest'anno, le lasagne sono venute bene, come sempre.
Come sempre, più o meno bene, nella nostra ricerca della perfezione assoluta.
Le lasagne, nella mia famiglia, sono come l'Olandese Volante: l'importante è cercare, sperimentare, sognare,


mangiare è quasi una questione secondaria.

E questo mi riconforta relativamente al futuro: perché c'è sempre l'ultima volta che si mangia un certo cibo, ma dopo viene la memoria, come nell'Eucarestia

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Immagine da Pinterest


e finché c'è la memoria, che venga materialmente ingoiato o no, il cibo feticcio è sempre lì, davanti a noi, o dietro di noi, a riempire le nostre bocche e il nostro cuore.

Buona settimana

lunedì 21 marzo 2016

21 marzo 2016 - Un vetro al giorno (ma anche meno)

Le pulizie domestiche.
Cosa potrebbe esserci di più banale e lineare?
Hai una casa - la polvere si posa, il grasso schizza, il germe impazza - tu pulisci la casa.

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Immagine da pinterest

Ma no, non è mai così semplice.
L'ambito delle faccende è un campo di battaglia su cui vengono a scontrarsi istanze sociali di fortissimo impatto

Tanto per cominciare, l'umanità si divide in due grandi categorie: quelli che le pulizie di casa se le fanno da sé, e quelli che pagano altri per farsele fare.
I primi, in genere, sono più poveri dei secondi.
I secondi, come si usava dire in altri tempi, sarebbero tendenzialmente "i padroni".
Quelli che spazzano i loro pavimenti si potrebbero definire "i servitori".
Non c'è costatazione più indiscutibile di questa: se B lava il water di A, B sta su un gradino più basso.


Per i padroni, la casa pulita è la normalità di chi ha il denaro.

Questo vorrebbe dire che "i servitori" hanno la casa sporca?
Ma assolutamente no! Soprattutto qui in Italia, giammai! 
Perché la pulizia è il lusso dei poveri.
Una botta d'orgoglio che richiede un'immensa quantità di tempo e di energia.
Impiegarle così è una pura questione di scelte personali.

Su questo territorio, inoltre, si combatte l'eterna battaglia dei sessi.

Tralascio i discorsi femministi, per limitarmi a parlare di quell'amica che, torturata dal marito maniaco dell'igiene, ormai esasperata lo ha mollato ed è diventata bravissima a fare fotografie.

Foto di Marisa C.
Io stessa ho passato sette anni della mia vita a cercare di piacere e compiacere un essere che continuava a paragonarmi a se stesso, alla sua mamma e alle sue donne precedenti, per dirmi che non ero amante della fatica fisica, efficiente e devota ai pavimenti come loro.


​Quella persona, in tenuta confacente

Vero è che, volenti o nolenti, le pulizie di casa sono parte della nostra vita.
Meglio far buon viso a cattiva sorte.


Su pinterest, ad esempio, i consigli per rendere più leggero questo fardello si sprecano.

Le norme che ho fatto mie sono queste:

- Se devi andare in una stanza, tira su una qualsiasi cosa fuori posto e mettila al suo posto in quella stanza. Mia madre chiamava questa tecnica: "Un viaggio e due servizi".
- Se a farlo impieghi solo 2 minuti, fallo subito (la sto sperimentando in questi giorni, ma mi sembra ragionevole - quindi condivido il suggerimento con voi).
- Se fare una cosa tutta intera ti sembra troppa fatica, segmentala. Io, ad esempi, quando decido di lavare le finestre, per un certo periodo lavo un vetro al giorno.
- Fa' qualcosa solo quando il fastidio che ti dà vedere la sporcizia supera il fastidio che provi a farla.
- E comunque, ricorda che nessuna donna è mai diventata famosa per quanto faceva bene i mestieri.

Naturalmente, ciascuna poi si regola secondo la propria natura.
Come ho già avuto modo di scrivere, i mestieri hanno una certa inspiegabile natura auto-giustificatoria, per cui dopo aver lavato il pavimento per lo più si sente di aver fatto la cosa giusta.
Insomma: per essere pigre ci vuole una grande forza d'animo. Non tutti ce l'hanno. 
Io ce l'ho.

Per rendere più salde le fondamenta della vostra nuova, splendida, creativa trascuratezza vi rivelo un segreto: gli uomini dicono un sacco di bugie. 
Non vale la pena sbattersi per far bella figura con loro.

La cugina del mio ex, ad esempio, mi ha rivelato che quando il suddetto era studente in una stanza d'affitto a Pisa, in quella stanza d'affitto si provava timore a entrare, tanto grande era la possibilità di restare contagiati da una qualsiasi malattia infettiva.
Quindi, non sarà stato vero neanche che le sue donne precedenti fossero le wonder-woman dello 
spolvero.
Quindi, meno di tutto era vero che lui avesse collaborato con loro - mentre con me no, perché la mia casa gli faceva troppo schifo e non sapeva dove cominciare (la stessa casa, nota bene, dove lui comunque trovava conveniente farsi mantenere).

Sulle menzogne che ci raccontano gli uomini quando citano meraviglie mestieristiche di donne che non siamo noi, anni fa ho scritto un racconto, che qui vi dono

Le pulizie
Cosa non si fa per gli uomini.
Questo pensava ogni mattina, quando si ritrovava davanti il lavello sgombro, immacolato, degno della pubblicità di un detersivo. La sua vista, oramai, non l’intimoriva più, ma non aveva ancora smesso di stupirsene.
Altre donne, come le era capitato di leggere sulle riviste femminili, cambiano città e paese, abbandonano carriere ben avviate oppure, al contrario, si fanno imprenditrici di successo. Lei no. Più modestamente, per amore si era messa a fare le pulizie.
Non che prima nella sua casa regnasse la sporcizia più sfrenata, beninteso. Solamente, le piaceva viverci comoda come un animaletto nella tana. Segnava il territorio con i vestiti smessi del giorno prima, lasciava che la polvere si accumulasse su pavimenti e mobili fino a poterne raccogliere un bel mucchietto in un colpo solo. E i piatti nel lavello dovevano maturare per qualche tempo il diritto di essere lavati.
Insomma, si godeva la sua infelicità. Si allargava nelle sue giornate con la stessa beata noncuranza con cui, di notte, occupava tutto lo spazio disponibile del letto.
Poi, all’improvviso, quando aveva smesso di pensarci, come di solito accade, aveva incontrato quello che poteva definire l’uomo della sua vita. E dopo qualche tempo, per amore e per necessità, lui si era trasferito a casa sua.
Da quel momento, il tempo per lei aveva cominciato a scorrere in modo diverso.
La vita di coppia le aveva portato nuovi piaceri, è vero. E organizzarsi la giornata per dedicarsi a questi non pesava.
Altro discorso valeva per la nuova conduzione della casa, che era diventata rigorosissima, marziale, chiusa ad ogni possibile compromesso e all’eccezione. Ordine e pulizia dovevano regnare assoluti in ogni spazio, sia aperto che chiuso, sia palese che nascosto.
Naturalmente, per ottenere un risultato del genere lei aveva dovuto raddrizzare la sua natura accomodante e un po’ poltrona, rinunciando a molti dei passatempi cui si dedicava con spensieratezza, nella vita precedente.
E tutto questo per colpa di chi? Si chiedeva, ogni volta che accantonava la lettura di un bel libro o saltava un tè con le amiche per tirare i mobili a lucido, dopo il lavoro. Per colpa di chi sono piegata in due a sfregare il pavimento dietro la tazza del water, mentre potrei farmi una passeggiata al parco? O comprarmi un paio di scarpe nuove? Per colpa sua?
Sì, certo, perché il suo sguardo di riprovazione la feriva profondamente, le rare volte in cui lui scopriva una camicia spiegazzata nell’armadio, o una vecchia macchia di caffè tra il muro e la cucina a gas.
Ma volendo andare a monte, chi l’ha ridotto così, lui, si chiedeva, a questo stadio al limite dell’ossessione, della patologia; chi ne ha fatto uno schiavo dell’igiene, della lucentezza a specchio, condizione di cui sono io a sopportare le conseguenze, visto che poi sono io quella che deve tenere la casa strapulita?
La madre, naturalmente, chi altri? Sua era la colpa, della madre, che lei non aveva conosciuto da viva, ma di cui aveva avuto modo di apprezzare la fama leggendaria mille volte, quando lui, preso da un attacco di nostalgia lacerante, si abbandonava a rievocarne le doti adamantine di perfetta padrona di casa.
“In casa mia”, le raccontava, per esempio, “la scopa non esisteva neanche. Non ce n’era bisogno! A terra non cadeva una briciola! Io ero il bambino più ben curato del quartiere, andavo in giro che sembravo un principino, sempre vestito di nuovo, e pulitissimo. E poi, il balcone di casa… Il balcone di casa mia era famoso: era così pieno di piante che sembrava una giungla, e non una virgola fuori posto, non una fogliolina a terra, non un alone… Che ci vuole? dirai tu, ce ne sono un mucchio, così. Forse… Ma sappi che mia madre amava tanto gli animali, e dava da mangiare ai piccioni mattina e sera, proprio su quel balcone, e i piccioni avevano imparato la lezione, e non sporcavano mai, ti dico MAI, in tutti gli anni che mia madre si è presa cura di loro non ho mai visto una macchia, né sulle mattonelle, a terra, né nel cortile sotto, e non volava una piuma… Non so come avesse fatto mia madre, ma anche i suoi piccioni erano dei campioni di pulizia! Sappilo!”
Lei lo sapeva, e sfregava, sfregava, meditando sulla sorprendente varietà di danni irreparabili che le madri possono operare nella fragile psiche dei figli maschi, e alimentando un certo qual malanimo nei confronti di questa suocera, ancora così presente ed ingombrante.
Col tempo, in realtà, anche lei aveva imparato a ottimizzare l’impegno, e a ritagliarsi dei piccoli spazi per sé.
Aveva notato, per esempio, che i sanitari del bagno, se lavati anche con una passata veloce, ma ogni mattina, non le richiedevano poi tanto tempo, e in compenso, così lucidi e splendenti, davano una bella impressione di pulito. A dare un colpo di scopa veloce intorno al tavolo, dopo cena, le briciole non scricchiolavano sotto la suola delle ciabatte, tradendo la trascuratezza della padrona di casa, e anche i vetri, se sfregati con decisione e un goccio d’alcool immediatamente, al formarsi del primo alone, la ripagavano con tanta luce in casa, e tanta pace in famiglia.
Quanto ai suoi spazi personali, le scarpe nuove le comprava lungo la strada, quando il tempo le concedeva di tornare a casa a piedi dal lavoro; le amiche le vedeva mentre lui era in viaggio d’affari, e alla lettura si dedicava comodamente seduta in autobus, durante il lungo tragitto verso l’ufficio, complice il traffico e il privilegio di abitare giusto al capolinea.
Così sa adattarsi una donna in gamba alle traversie della vita, si disse anche quel mattino, piuttosto soddisfatta di sé, mentre apriva il suo libro al segno lasciato il giorno precedente. Ma, come a volte le accadeva, la conversazione di due comari, dietro a lei, le impedì di concentrarsi sulla lettura.
“Stamattina non ho neanche fatto in tempo a rifare i letti”, diceva una, “Se arrivo tardi all’accettazione, perdo l’appuntamento, e un’altra visita chissà per quando me la fissano!”
“Eh sì, bisogna sapersi adeguare, a volte la casa è meglio trascurarla, ci sono cose più urgenti”
Quanto le piaceva riconoscersi nei problemi che tormentavano anche le altre…
“Tanto”, riprendeva la prima voce, “ai livelli della povera signora Camilla non ci si arriva di certo!”
Signora Camilla? Ma così si chiamava la suocera, pensò lei, aguzzando le orecchie con curiosità raddoppiata.
“He he he”, rise la seconda comare, con discrezione, “Ne parlo come da viva, beninteso, ma in paragone suo, siamo tutte delle igieniste assatanate!”
La conversazione si faceva sempre più interessante.
“Non che fosse cattiva…”
“No, ma che cattiva, chi ha detto cattiva? Certo, aveva gli interessi suoi, i gatti randagi, la raccolta di fondi per i cani abbandonati…”
“Sì, vabbè, i cani abbandonati… Tante opere di bene, ma ai cristiani non ci pensava mai? E non dico gli estranei, i poveracci, che pure nel quartiere ce n’erano tanti, ma il marito, il figlio… Pensa a come li mandava in giro!”
“Ah, il figlio, povero bambino… L’ho visto l’altro giorno dalle parti della stazione, per lo meno, mi pareva proprio lui. Ormai è un uomo grande e grosso, e come si è fatto bello: tutto in ordine, pulito, sembrava un damerino…”
“E sarà stata la reazione allo shock infantile! Sempre per strada tutto lercio, con i gomiti stracciati…”
“Stracciati, poi…”
“Sì sì, che, non abitavano sotto casa mia? Non ce li avevo gli occhi per vedere? Quella, pace all’anima sua, era una vera… – la comare, infervorata, qui fece fatica a trattenersi – Io che avevo il balcone sotto il suo avevo un bel daffare, a pulire le cacate dei piccioni a cui quella dava da mangiare… Tutti i vicini aveva contro, eravamo andati dall’amministratore, avevamo scritto al sindaco, ma lei niente, se ne fregava, avessi visto che macello ci combinava, con quei piccioni… Era una vera zozzona, te lo dico io!”
Poi, forse richiamata dall’amica al rispetto che si deve ai morti, la comare si zittì, e riprese a parlare dopo qualche minuto, di altre faccende.
Ma lei, oramai, non ascoltava più. Era presa da un turbine di pensieri, tanto che mancò la fermata dell’ufficio, e per tutto il giorno non riuscì a concentrarsi su nulla.
Come, si diceva, come ha potuto ingannarmi così, e raccontarmi tutte quelle menzogne su sua madre? Ma io per chi ho buttato via tutte quelle ore per farlo vivere come in una sala operatoria, mentre avrei avuto mille altre cose più interessanti da fare? Mi ha tenuto schiava di un vile ricatto tutto questo tempo, il nostro rapporto era fondato sulla menzogna… O forse è pazzo! Vive in una realtà che si è inventato lui, e la crede vera… E io, che per tutto questo tempo ho disprezzato mia suocera, che invece era la più dritta di tutte, e si faceva i fatti suoi, fregandosene di quello che diceva la gente, a cominciare dal marito… È vero, proprio il suo esempio avrei dovuto seguire, ma quello vero!
Insomma, tante cose di questo genere pensava, tutte molto estreme, e tra una telefonata ad un cliente e l’archiviazione di una pratica mise a punto il suo piano di battaglia.
Contro ogni logica, prese una mezza giornata di permesso e non andò a svagarsi, o a panciollare sotto l’ombra di un bell’albero, al parco. Al contrario, tornò dritta a casa e si mise a fare le pulizie di fino, con un vigore e un’efficacia mai visti prima. Pensava di fargli assaporare per l’ultima volta il paradiso di splendore di cui l’aveva costretta ad essere l’artefice, per poi cacciarlo via come l’arcangelo Gabriele, brandendo una lama di luce: la spada della verità!
“Che ti credi?”, gli avrebbe urlato, ributtandolo sul pianerottolo con tutti i suoi averi, “Che io non sappia chi era veramente tua madre? Credevi che non avrei mai scoperto che era la favola del quartiere, la strega zozzona di cui tutti sparlavano alle spalle? Idiota che sono stata, a vivere al tuo servizio come una schiava…”
Ma poi, la sera, gli spalancò la porta sul pavimento scintillante, e quando vide sul suo volto scomparire all’improvviso tutta la tensione accumulata in un giorno di lavoro, i suoi occhi farsi azzurri e puliti come quelli di un bambino, sentì sciogliersi tutti i nodi nei muscoli del collo, fece un sospiro e, avvicinandogli le pattine con il piede, disse:
“Ciao! Mettiti queste!”

(Da "Il Giorno e la Notte" di Silvana D'Angelo,raccolta di racconti acquistabile qui 

E buona settimana.

Silvana



lunedì 14 marzo 2016

14 marzo 2016 - Il fior fiore del mio pensiero scientifico

In questi giorni ho piuttosto freddo.
Ho persino più freddo che a gennaio.
Non so se effettivamente la temperatura sia più bassa - forse è solo che, come dicono a Napoli, la coda è la più dura a scorticare, e io di quest'inverno non ne posso proprio più.

C'è chi invece si sente già pronto per la bella stagione, anzi, è convintissimo che sia già arrivata.

La prova? La scorsa settimana, attraversando il parco per venire al lavoro, mi sembrava di essere una deessa. Una fata. Una Primavera del Botticelli.

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Dettaglio

I prati erano un tripudio di fiori.
Ma come fanno a saperlo, loro, che sta per arrivare primavera anche quando fa freddo?
E insomma, un po' mi dispiaceva pestarli, ma d'altronde, essendo la loro dea, potevo permettermi di essere un po' malvagia e ucciderne un certo numero.

C'erano gli occhi della madonna che erborinavano l'erba d'azzurro, e le belle facce delle margherite, e le viole in certi posti speciali che conosco solo io (lo so che non è vero, ma mi piace pensarlo),

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 e certi fiorellini violacei che una volta una mia collega ha detto: "Ma quelli più che altro che sono...? Erbacce...?", e invece a me piacciono tanto perché, innanzitutto, conferiscono una bella texture vellutata e pelosa ai prati. 

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E poi, mi portano dritto dritto a ciò di cui volevo parlare oggi.

In inglese i fiori di campo si chiamano "wild flowers", espressione che impropriamente si potrebbe tradurre come "fiori selvaggi", o anche "fiori pazzi".
Proprio come i fiori-erbaccia poco apprezzati dalla collega, sono i più semplici della loro specie, perché nascono spontanei e non sono stati oggetto di selezioni genetiche.
Quando li vedo, mi chiedo sempre con che occhi li abbiano guardati gli uomini preistorici.
Pensate: quelli vivevano nelle grotte, combattevano contro le tigri dai denti a sciabola, sentivano i lupi ululare nelle notti di gelo e di tormenta, però c'era una certa stagione all'anno in cui mettevano il piedone calzato di pelli di uro fuori di casa, e si accorgevano di avere davanti a sé una distesa di margheritine bianche e gialle che li guardavano come bambine sorridenti.

Cosa avranno mai pensato?
Cosa avranno mai provato?

Io credo che i fiorellini abbiano contribuito fortemente a far nascere e poi crescere il senso estetico dei nostri antenati - come anche i tramonti e gli arcobaleni, è vero, ma con la differenza che i fiori di campo sono piccoli piccoli e durano poco. 
Quindi, per apprezzarli li devi cercare. Devi fare molta attenzione.

E poi, dei fiorellini non ti fai quasi niente. Non li arrostisci sullo spiedo.
Sono una delle prime incarnazioni del bello per amore del bello.

Il mughetto, dunque, ha domato Cro-Magnon?
Senza violetta non avremmo avuto Beethoven?
Io credo che sia così.
Tanto, degli uomini preistorici non sappiamo nulla, e ogni teoria è valida quanto un'altra.
Posso essere convinta di avere ragione.

Quanto al valore che hanno i fiori e le piante per noi, al giorno d'oggi, mi prendo la libertà di citare le bellissime parole che mi ha scritto la mia amica Emma di Carrara, solo qualche giorno fa:

"Ciao Silvana,
i fiiori del mio giardino, che ti ho inviato in foto, appartengono alla specie Leptospermum; li ho comprati in un vasetto l'anno scorso e poi, piantati in piena terra, stanno crescendo notevolmente. I fiorellini sono delicatissimi e, in questa stagione sanno regalare una nota gioiosa anche nelle giornate piovose o nei momenti che possiamo definire "disarmonici" . In realtà ti dirò che questo giardino, pur molto semplice e in parte incolto, è per me fonte di serenità e perché no, di felicità. E' sempre più luogo ideale, forse di "rifugio" da un mondo che mi piace sempre meno ... cose grandi e cose piccole (...).  I fiori invece sono lì a regalare solo gioia con i loro colori e profumi e a ricordarci che la bellezza esiste e che  la semplicità e basta poco per riconoscerle ed apprezzarle,  ed anche per regalarla con semplicità, alle persone come te, che sanno apprezzarla .


Siamo debitori di tanto ai fiorellini.

Da loro impariamo che la gioia dura un attimo.

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I glicini: fiori velocissimi

E grazie a loro ogni anno verifichiamo che la bellezza può anche ritornare.

Se poi consideriamo il paradosso che i fiori sono sì belli e profumati, ma non per noi, che dal loro punto di vista siamo inutilissimi



possiamo dire che i fiori sono i nostri primi maestri.


Buona settimana!




lunedì 7 marzo 2016

7 marzo 2016 - Gesti

La distanza ci rende geografi.
Quando siamo in aereo e guardiamo il paesaggio, sotto di noi, facilmente leggiamo: lì c'è pianura, lì c'è città, e le colline con i paesini, e le indomite montagne, stanno lì sotto.
La distanza cancella la maggior parte dei particolari.
Vediamo un paesaggio in sintesi e lo comprendiamo meglio.
O, per lo meno, ne facciamo più facilmente il riassunto.


Abbiamo amici, parenti, conoscenti.
Ci circondano gli sconosciuti.
Tutti si muovono intorno a noi con gesti a volte nuovi, altre volte ripetuti.
E' un oceano di movimenti.

Con la lontananza, in questo mare a volte individuiamo un singolo gesto - un modo di agitare le mani, o di stuzzicarsi una ciocca di capelli -  che rendono la persona già nota unica e tipica - nel bene o nel male.

Così lontano nel tempo, ad esempio, ricordo l'abitudine di mio padre di serrare le mascelle, di stringere i denti ritmicamente, facendo vibrare un muscolo sul lato della faccia.
Ancora, mesi fa ho visto un signore anziano che teneva le mani unite dietro la schiena, agitando le dita allegramente, ed è stato come sentire all'improvviso un profumo dell'infanzia, o sentire una canzone dimenticata. 
Mi sono ricordata all'improvviso di un gesto di mio padre.

E Andrea.
Andrea era la signora tedesca che mi ha affittato una stanza un paio di anni fa, a Francoforte.
Era gentilissima, e ha fatto per me più di quanto avrebbe dovuto da contratto - ad esempio, è venuta a prendermi all'aeroporto quando sono arrivata in Germania, e mi ci ha riaccompagnato due settimane dopo, quando son partita.
Poi, ha sempre parlato moltissimo con me. In italiano, perché lei studiava l'italiano, e mangiava italiano, e viaggiava spesso in Italia, e voleva fare pratica, quindi si è impegnata moltissimo a sentire le mie opinioni e a dirmi le sue.
Per questo, ho pensato che fosse amica mia.
Ma dopo che me ne sono andata non ha mai risposto alle mie mail, neanche per Natale.
Cosa dovrei pensare, io?
Ma io faccio a meno di pensare e dico solo che fatico a capire i tedeschi, perché i tedeschi sono diversi da me.

Però c'è un gesto che ricordo, di Andrea.
Una sera, sono ritornata a casa sua e le ho detto che in quel tal cortile di quella tal via, nel suo quartiere, avevo visto un vecchio gatto addormentato.
E lei ha sorriso di sollievo e di piacere. 
"Non lo vedevo da tanto tempo, temevo fosse morto", mi ha spiegato, e ha continuato a sorridere, mentre faceva le sue cose in cucina.

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Fiori che crescevano nel giardino del gatto

Quel sorriso salva Andrea nella mia memoria. Allo stesso modo, la Grusen'ka di Delitto e Castigo racconta che, secondo una leggenda, a una vecchia appena morta venne data la possibilità di salvarsi dall'inferno attaccandosi a una cipolla - simbolo dell'unico atto di generosità da lei compiuto in vita.


E poi c'è quella direttrice della Biblioteca di Politecnico in cui ho lavorato tanto tempo fa, promotrice di un'azione di mobbing nei miei confronti, e colpevole di diverse altre cose (sentivo dire, ad esempio, che si faceva comprare i libri di testo dell'Universita per la figlia coi soldi statali della Biblioteca che dirigeva - la figlia iscritta a una facoltà che col Politecnico non c'entrava niente).
Questa signora, per fare un esempio, parlava al telefono coprendosi le labbra con la mano, perché le piaceva fare le sue cose nascostamente.
Poi, camminava agitando le dita come se fosse spastica.
Faceva impressione guardarla.

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Di fisico, assomigliava a una pera (immagine da Pinterest)

Un gesto che non faceva mai: lavarsi.
Io non l'avrei vista comunque, mentre si lavava, però la conseguenza di questo gesto mancato la sentivano tutti, da lontano.

Infatti, quella direttrice puzzava come trenta cammelli.

Diceva una mia amica che avrebbe riconosciuto le mie gambe che camminano anche se sopra non ci fossi stata io - non per la forma, me per il gesto.
E una volta, piacevo ad un ragazzo che, vedendomi tormentare l'orecchio nel mio tic giovanile, mi disse che somigliavo a un tenero gattino.

Dopo questa distanza d'anni, chissà cosa direbbe.


Buona settimana!



Silvana