lunedì 25 aprile 2016

25 aprile 2016 - Senilità o zitellismo

Ero sulla spiaggia del Poetto, l'altro giorno, quando ricevo una telefonata da mia sorella.

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Io e la mia amica Marie ci stavamo avviando verso la fermata del bus per tornare alla base.
Ero ancora sulla sabbia, in vista della strada, dietro la duna.
Mi scappava la pipì.
Parlavo, parlavo, e nel frattempo pensavo: Ma io non potrei fare finta di niente e accucciarmi qui sulla sabbia? Con una mano tengo su il cellulare, con l'altra sposto un po' il costume con mossa strategica, e mi libero del fastidio fisiologico.
In effetti, la gente in giro era poca. Ma la duna a Cagliari è molto bassa.
Fortunatamente ho desistito e resistito.
La pipì l'ho fatta più tardi, in un luogo preposto.

E mi è venuta in mente mia prozia Monica, la sorella del nonno Francesco che non ho mai conosciuto.
Negli ultimi tempi della sua vita terrena, aveva sviluppato una mentalità molto libera: se le scappava la pipì in giro per la strada, si accucciava e la faceva.
Poco dopo l'hanno portata in un ricovero.
Questo, ancora una volta, mi dimostra che certe abitudini che crediamo molto personali sono in realtà ereditarie e genetiche, come quella di assaggiare il cibo dalle padelle, mentre sta cuocendo (che mi viene dal bisnonno Tone), o quella di strappare pagine dalle riviste per conservarle e leggerle più tardi (da nonna Emilia). 
E chissà quante altre abitudini erano di altri prima che mie, e io semplicemente non ne sono al corrente.

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Le mie prozie Carola, Barbera e anche la Monica, in her prime

Questo mi dimostra, inoltre, che sono sempre più lontana dai fiori dei miei anni, e mi avvicino pericolosamente a un'età senile in cui forse farò cose su cui non ho tanto tanto il controllo.

Ma c'è stato altro, a dimostrarmi che ormai sono sempre più agéé, e sempre più zitella incallita.

Infatti, vi confesso che mentre scattavo dossier fotografici a Marie, che come tutti gli stranieri può fare il bagno molto ma molto prima, nella stagione, di noi tutti più o meno indigeni,

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e mentre cercavo scorci scenografici nel quartiere di Castello,

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o mentre prendevamo il caffè al bar,

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o cercavamo spirito

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(anche quello Santo)

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sulle terrazze panoramiche, al tramonto.
E mentre ci arrampicavamo sulla Torre San Pancrazio per sentirci più vicine al cielo, 

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e davamo ala caccia chi alle volpi

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e chi alle pavoncelle,

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e mentre pedalavamo nelle saline per avvistare fenicotteri infreddoliti

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o passeggiavamo infreddolite sul lungomare,

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mentre verificavo la sussistenza in vita di vecchie conoscenze

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o cercavo interpretazioni fiamminghe della serena convivenza tra me e Marie,

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mentre ero in vacanza, insomma, e mi dedicavo a tutte queste amene attività, io non facevo che pensare a LEI.

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Lei, che avevo lasciato a pensione dalla zia, e nel frattempo esplorava la casa-vacanze

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si abbeverava tranquilla,

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si dilettava con le gocce d'acqua,

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faceva la posta ai piccioni del balcone,

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giocava alll'astronauta

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per tornare infine sulla terra, tra di noi.

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Faceva insomma, nel frattempo, tutte queste cose titinesche.

L'ultimo giorno a Cagliari, rimasta sola, sono andata a fare un giro al Museo Archeologico.

Al Museo Archeologico trovo sempre qualcosa che mi colpisce nel profondo.
Questa volta, ho incrociato una scolaresca in visita guidata.
La ragazza del Museo parlava dei tophet, luoghi sacri fenici rinvenuti in vari punti della Sardegna, legati alla nascita e ai bambini.

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Si diceva che i Fenici facessero sacrifici di piccoli umani, ma è una calunnia - spiegava la guida agli scolari.
Non possiamo sapere con certezza il senso di tutto, ma abbiamo trovato ossa di piccoli animali bruciate, e loro sì, loro probabilmente erano stati sacrificati per ingraziarsi l'arrivo di un bambino.

E allora, penso io, qualcuno da qualche parte deve aver sacrificato non so, un vegetale, forse una zucca, perché nella mia vita arrivasse Titina.

Grazie comunque, chiunque tu sia stato.

E grazie alla zia che ha ospitato Titina con tanto amore e senso della responsabilità.


Buon 25 aprile, buona settimana!

Silvana

lunedì 18 aprile 2016

18 aprile 2016 - Fenomenologia essenziale del Capo

Ci sono posti che ho visto, nella mia vita, e che non desidero guardare una seconda volta.
Uno di questi è molto grande: la Russia.


Le ragioni sono molteplici, e spaziano in un range che va dallo storico-sociologico al personal-meschino.
Non ne parlerò.
Basterà dire, oggi, che l'impatto è stato negativo sin dall'inizio: partita sul declinare del comunismo alla volta di Mosca per un soggiorno studio di quattro mesi, io con le mie compagne di viaggio subito d'amblé siamo rimaste bloccate fino a notte fonda nello squallido aeroporto della capitale, per aspettare che arrivassero altre ragazze - molto in ritardo - da Roma, e fare un unico viaggio verso l'istituto dove avremmo alloggiato.
Quando finalmente le colleghe arrivarono dal Caput Mundi, e noi ci riscuotemmo dallo stravaccamento catatonico in cui eravamo cadute, dovemmo affrontare la questione posta dalle nostre guide locali: "Chi è il vostro capo?".
Perché, evidentemente, in quel Paese a quei tempi - e forse anche adesso - là dove c'era un qualsivoglia gruppo c'era un anche un Capo.
Quindi, puntato il dito a caso su una volontaria che si era proposta sul momento pur di farla finita e lasciare quel luogo di velenoso sopore, raggiungemmo un pullmann antidiluviano dove gli stessi ragazzi che ci avevano sollecitato un Referente ci elargirono uno di quei proverbi geniali che mi avvincono allo spirito del grande Paese la cui materia non riesco a sopportare: "I Capi sono degli idioti".

E' così: come tutte le problematiche, anche l'esistenza dei Capi può essere considerata da punti di vista diversi.
Anzi: opposti.

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Immagine da Google: Roma - Tempio di Giano Bifronte

Personalmente, nella mia primordiale fase della crescita qualcosa deve essersi rotto in me, e adesso non sopporto di avere responsabilità verso gli altri.

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Titina esclusa

Probabilmente è anche per questo che non mi sono fatta una famiglia.
Di certo, questa è la causa che mi ha impedito di fare la Prof.



D'altro canto, ritengo di essere una persona abbastanza tollerante, non sadica, non rompiscatole.
Sono qualità da poco?
Certamente no.

E però, se una persona sente di avere doti di particolare intelligenza, chiarezza di vedute, intraprendenza, riflessi, e vuole metterle a disposizione della Comunità, perché non dovrebbe?
Forse perché, qui soprattutto in Italia, "Chi sparte ha la miglior parte"?

Lasciamo perdere.
Sono discorsi troppo complicati, che spaziano dallo storico-sociologico al personal-meschino.

Qui, oggi, volevo solo condividere con voi due regole, due fenomeni fondamentali che si verificano in ogni gruppo che sia guidato da un capo.
Il primo l'ho notato personalmente. 
Il secondo è stato aggiunto come risposta da un mio interlocutore, qualche tempo fa.
Ed essi sono:

- Se c'è un Capo, la quasi totalità dei membri del gruppo prova l'irrefrenabile bisogno di leccargli il culo.
- Se uno è Capo, prova l'irrefrenabile bisogno che gli si lecchi il culo.

E' vero?
E' falso?
Se ne può discutere.

Io ho tantissimi difetti anche molto brutti, e che mi rendono la vita difficile, ma leccaculo no, ve lo assicuro, non lo sono.
La mia visione della faccenda, piuttosto, è questa:


Il pesce più grosso 

C’era una volta una scatola di latta piena di pesciolini sott’olio, alcuni più grandi, altri più 
piccoli, tutti quanti stretti pigiati nel buio più assoluto. 
In attesa che si compiesse il loro triste destino, i pesciolini ingannavano il tempo 
chiacchierando allegramente del più e del meno: si raccontavano le barzellette, ricordavano la loro infanzia felice di avannotti, a volte parlavano anche d’amore. 
All’improvviso, una voce più profonda delle altre irruppe nell’allegro brusio. 
“Zitti tutti!”, disse quella voce, “Sono il pesce più grosso, e dovete fare come dico io. Cos’è 
questa confusione? Ordine, ordine ci vuole! D’ora in poi, sarò io a decidere chi deve parlare, e 
quando!”
Gli altri pesci, intimoriti e sorpresi, ammutolirono all’istante.
Finché un pesciolino minuscolo, che se ne stava incastrato nello spigolo più scomodo della 
latta, osservò:
“Visto che sei il caposcatola, perché non trovi il modo di riportarci tutti in fondo al mare?”
Dopo mezzo minuto di silenzio, il brusio riprese più forte e più allegro di prima.

E visto che ci sono posti al mondo dove mi piace tornare, e che oggi vado a Cagliari per la terza volta, spero di sopravvivere al viaggio e già vi dico che se non sopravvivo vi volevo bene.


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Uccellino sardo



In ogni caso, buona settimana!


Silvana

lunedì 11 aprile 2016

11 aprile 2016 - Dove parlerò ancora del lusso

Tanti anni fa, invece di passare il fine-settimana al lavoro o sola in casa, secondo l'abitudine degli ultimi tempi, mi capitò per un certo periodo di andare regolarmente fuori Milano, in genere in riva a qualche lago, dove il mio accompagnatore sfogava le sue propensioni acquatiche sulla tavola da wind-surf.

(chissà se anche lui adesso ci ha ha la panza)

Era un accompagnatore che non mancava mai di guardarsi molto intorno, e di fare commenti con me sui panorami che osservava.
Un giorno, col malanimo travestito da fine ironia che gli era solito, dopo aver visto una coppia di madre con figlia mi fa:
"Ci sono certe madri che secondo me alle figlie insegnano a fare i p. [qui nominando una pratica erotica che non sta bene riportare] perché facciano una bella carriera nella vita".
Lascio perdere quanto di vero ci possa essere in queste parole 

(La cronaca ci insegna che qualcosa di vero forse c'era)

per dedicarmi a un'altra questione: che cosa mai ha insegnato, mia madre, a me?

La coppia madre-figlia della riva del lago che a quei tempi ispirò il mio accompagnatore io non riuscii a vederla. 
Quando andavo in giro con quella persona, povera sciocca, non avevo occhi che per lui.
Ma ricordo Pinuccia (nome di fantasia), la mia migliore amica d'allora, allora tanto simile a me per estrazione sociale, studi, temperamento e propensioni - e sua madre. L'unica madre di amica che trovassi davvero, totalmente simpatica. Persino più della figlia.

Pinuccia in her prime​

E dunque: non che questa signora non fosse, diciamo, piuttosto critica nei confronti della Pina. Ai miei tempi le madri adoranti ancora non c'erano. Che io sappia.
Però Pinuccia, per lo meno, è cresciuta consapevole di avere di avere una faccia e un fisico con cui si poteva un po' giocare, allestendoli in svariate guise. 
Qualcuno le aveva fatto capire che è possibile valorizzarsi. 
Che nel vestirsi si può anche mirare a un concetto di valore estetico.
Insomma: io credo che dietro a questa consapevolezza della giovane Pina stessa sua madre - come pure dietro al suo desiderio di sposarsi, avere dei figli, non essere sola nella vita.

Mia madre, invece, in questo campo non mi ha insegnato assolutamente nulla.
La farò breve: il corpo umano - quello femminile e personale, e il mio sopra a tutto - secondo lei era una presenza imbarazzante da infagottare e nascondere. Doveva diventare un'assenza.
Quanto al volto, dove non arrivava mia madre interveniva mia sorella, che quando provavo a truccarmi mi elargiva il suo tipico apprezzamento: "Sembri una puttana".

Forse sta questo dietro alla mia solitudine? Dietro ai miei matrimoni mancati?
Chi può dirlo.
Mentre la Pinuccia - se qualcuno fosse curioso di saperlo - ha sposato un professionista e vive in una magione di ampia metratura.



Ma ci sarà pur qualcos'altro che mia madre mi ha insegnato, se non ad apprezzarmi e a valorizzarmi.
Una madre insegna sempre qualcosa!
E' lì per questo.

E dunque, quella vecchietta indomita (e incosciente) che a 84 anni si arrampica sulle scale a pioli per lavare i lampadari.

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In alto a sinistra: uno dei lampadari di mia madre

Che dopo essere stata operata due volte di cancro se ne va da sola in autobus a fare gli esami di controllo e a ritirarne i risultati.
Che porta da sola la vecchia gatta Mizzi dalla veterinaria per le cure, trascinandola per chilometri sul carrellino della spesa, senza aspettare che io possa partecipare, libera dai turni in biblioteca.
Che cosa mai ha insegnato a me?

Un giorno, dopo averla rimproverata per l'ennesima volta per le sue iniziative da lupa solitaria, la sua risposta mi ha aperto gli occhi.
"Finché ce la faccio, lo voglio fare da sola!" ha detto con decisione, per poi aggiungere in tono più pacato, quasi soprappensiero: "Lo faccio anche per me stessa..."

Il che mi ha ricordato di quando ero piccola e lei mi ripeteva: "Tu devi avere un lavoro ed essere indipendente, così non devi niente a nessuno e non dipendi da nessuno!".
Alla faccia di tutte le femministe dichiarate e sbandierate.
E di tutte le madri che alle figlie insegnano a fare i p. (immagine metaforica) per mirare a un matrimonio migliore.

Tutto ciò mi ha fatto capire che, come la pulizia è il lusso dei poveri, l'autonomia è il lusso delle persone sole.

Infatti, sabato sera ero sola come al solito, nessuno mi ha cercato come al solito, anzi tecnicamente posso dire di essere stata bidonata come al solito, però sono andata a letto alle otto e mezza e ho dormito come un sasso per dieci ore di fila.



Che Dio mi benedica. Finché dura.

E che benedica la mia mamma.

Buona settimana.


Silvana

lunedì 4 aprile 2016

4 aprile 2016 - Metafore marine

E poi ad Andora un giorno - io avrò avuto tre o quattro anni - è accaduto che mia cugina Assunta, che viveva con noi "au pair" per dare una mano a mia madre con le bisogne familiari, si fosse distratta mentre giaceva pancia all'aria sul materassino, affidatasi alle onde del mare, ad occhi chiusi.

Riaperti gli occhi, si rese conto che la corrente la stava portando sempre più lontana, sempre più lontana dalla riva, 


e cominciò sul materassino a strepitare per richiamare l'attenzione di chi, più padrone delle circostanze di lei, le potesse dare una mano a salvarsi la vita.
Fu così che un baldo giovane bravo nuotatore la trascinò a riva.

Poco più tardi, riuniti a tavola, i miei genitori si misero a scherzare sull'accaduto - immagino che in realtà si fossero presi un bello spavento, immagino che volessero alleviare la tensione - e dopo aver stappato una bottiglia di vino (l'alcool in questi casi aiuta sempre, e poi qualcosa da festeggiare c'era), mio padre o mia madre, chissà chi dei due, osservando il cavatappi e le sue meccaniche, disse:
"Guarda, sembra Assunta che chiede aiuto dal materassino!"

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Assunta già tra i flutti

Questa è la prima metafora - o similitudine - di cui io abbia memoria.
L'ho ricordata all'improvviso l'altro giorno, e mi è parso di ritrovare quell'orecchino d'oro che ho smarrito sotto Natale, un paio d'anni fa.

Perché se a una cosa almeno mi è servito tutto il tempo che è trascorso da quando sono nata, almeno è servito a conoscere due cose di me stessa.



E quello che so di me stessa è che più di tutto mi piacciono le metafore e le similitudini, e tutti i collegamenti più impensati o più banali che si possono fare tra le cose di questo mondo.

E se serve sapere che tipo di uomo ci piace, dirò che il tipo che piace a me ha una bella voce e sa produrre metafore interessanti.

E mi piace inoltre che la prima metafora della mia vita sia di carattere marino, perché qui si apre un cerchio che subito chiuderò.

Nel senso che se dovessi individuare una metafora che esprima come mi sento adesso, in questo tempo della mia vita, dirò che mi sembra di essere un naufrago gettato sulla riva del mare, a faccia sotto, sulla battigia.

Vengo da un paese dove le cose succedevano e c'era vita, e ora me ne rimango pancia a terra dove non succede più niente, e spero solo che la situazione non peggiori - che non batta troppo forte il sole per bruciarmi, che non arrivino gli indigeni a darmi una mazzata in testa, o i lupi marini a mangiarmi.

Me ne sto lì distesa tranquilla, e lasciatemi stare.



(ma si possono sempre fare due risate)


Buona settimana!

Silvana


P.S.: A proposito di mare: mi piacerebbe organizzare un fine-settimana a Livorno. Non ci sono mai stata.
Qualcuno vuole venire con me?