lunedì 27 febbraio 2017

27 febbraio 2017 - La storia finita

Dicevano di mia nonna materna che fosse una donna di grande intelligenza e di scarsa pazienza.
Quando faceva i casonsei, ad esempio, cominciava col lavorarli tutti piccoli e regolari. Poi col tempo si stufava, e gli ultimi tortelloni, per sbrigarsi, li faceva enormi.
Un casonsel grande come un piatto - mi sarebbe proprio piaciuto vederlo! 
E anche mangiarlo.


Non so se io sia poco paziente per via di tabe familiare.
Dare colpa alla genetica rende tutto più ineluttabile, e forse anche interessante - alla Lessico Famigliare.
Sta di fatto che con gli anni sono diventata, più che impaziente, insofferente.

Faccio qualche sforzo solo con Titina - e non sempre.

Tutti gli altri - persone, cose, trasmissioni televisive - rischiano sempre più fortemente di cadere vittima della sindrome dell'ultimo tortello: un taglio grosso e via in pentola.

I libri, soprattutto.

Non perché non mi piacciano. Non perché non li apprezzi. In realtà, non c'è una ragione precisa per cui io abbandoni l'80% circa dei libri che inizio prima di arrivare a pagina 50.
Però è quello che succede, purtroppo.

E così, ho lasciato la protagonista di questo romanzo

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mentre il suo giovane amante le schiacciava i punti neri sulla schiena.

La protagonista di questo

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balla sulla terrazza di un night club di Shanghai da circa tre mesi.

Sotto Natale, la protagonista di questo

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ha cominciato a rievocare la propria vita sessuale dalle origini fino al suo tempo presente, e non ha ancora finito.

Per consolarmi, penso che non ci sia niente di innaturale, nel lasciare le storie a metà.
In primo luogo, non è detto che proseguano in modo interessante.
Ad esempio: mesi fa avevo raccontato della mia abitudine di pranzare in una certa trattoria dove mi trattavano con insofferenza.
Un giorno mi è venuta una forte diarrea, dopo aver mangiato da loro, e non ci sono più andata.
Adesso, ne frequento un'altra più vicina alla mia biblioteca dove il personale è molto più sorridente.
E' interessante, questo?
Mah.
E anche i pizzaioli antipatici di cui avevo parlato: dopo l'ennesima battuta poco divertente sulle preferenze alimentari della nostra famiglia, io mia madre e mia sorella abbiamo smesso di servirci da loro e compriamo la pizza all'Esselunga.
A chi giova saperlo?

Delle storie, l'unico momento che conti è l'inizio.

Lasciarci alle spalle delle storie incompiute è il nostro destino.

Come scriveva Vivian Lamarque:

A vacanza conclusa dal treno vedere
chi ancora sulla spiaggia gioca si bagna
la loro vacanza non è ancora finita:
sarà così sarà così
lasciare la vita?

E chi lo sa?
Ma ci importa saperlo?
Meglio far finta di niente e dare inizio a qualcosa di nuovo.


Buona settimana!


Silvana



lunedì 20 febbraio 2017

20 febbraio 2017 - Paradossi in campo lavorativo

E' cambiato molto, nel tempo, il posto dove abito

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Immagine da Google

e continua a cambiare.
Un paio d'anni fa, ad esempio, hanno costruito un centro commerciale con supermercato subito all'inizio del paese, sulla sinistra, venendo da Milano.

Non ci vado spesso: è lontano da casa mia, e non mi è simpatico.
Ma trovo che i prezzi siano convenienti in materia di cibo per gatti, e allora di tanto in tanto ci faccio un salto, perché la Titina è figlia unica ma mangia come se fosse un due per uno.

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Titi

E ogni volta che passo per di là, non posso fare a meno di pensare alla mia compagna di classe Isa.

Era una persona estroversa e socievole, la Isa, e dal di fuori sembrava intelligente.
Noi che condividevamo con lei le mattinate, però, sapevamo che era in grado di prendere sviste molto notevoli nella valutazione del reale, e che la profondità delle sue osservazioni spesso lasciava a desiderare.
Un piccolo esempio per tutti: interrogata sul diametro di un tubo capillare, scambiò la battuta di un compagno per un suggerimento, e rispose "Cinque metri!".
Io, col tempo, ho fatto esperienza di altre sue caratteristiche.
Ad esempio: se le rivelavi un fatto tuo personale, lei poi lo diffondeva in chiave comica in tutta la classe. Spacciava come reali dei dati partoriti dalla sua fantasia. Non si presentava agli appuntamenti.
Ciliegina sulla torta: aveva un gusto nel vestire e nell'accostare i colori che non condivideva assolutamente con nessuno.
Non in questo Paese. Non in Italia.

Però era piuttosto fortunata.
Sempre rimandata in almeno tre materie, non è mai stata bocciata - se questa è fortuna.
Non è mai stata sola in vita sua.
Ha trovato lavoro subito dopo le superiori e ha fatto carriera per diventare - rullo di tamburi - somma responsabile della linea di abbigliamento in tutti i supermercati d'Italia che appartengono a questa catena del nuovo centro commerciale della mia città.
Insomma: quando vado a comprare scatolette e animelle per la Titina, passo accanto a quei bei vestitini, e non posso fare a meno vedendoli di pensare alla Isa e a come si vestiva ai tempi del liceo, e alla volta in cui, incontrandola per caso, mi ha detto: "Uffi, sono stanca, devo sempre andare per sfilate di moda...".

Un caso simile è rappresentato dal mio amico Pietro Paolo del tempo che fu.
Pietro Paolo era argentino di Buenos Aires, ma oriundo italiano.
Quando laggiù si scatenò la grande crisi economica, alla fine degli anni '80, venne a vivere a Milano.
Qui si diede a molte attività, tra cui il cuoco, il guardiano di pappagalli, l'investitore in borsa.
Quella che però gli ha procurato le maggiori soddisfazioni, e che immagino ancora adesso eserciti - ma non più da noi: si è trasferito in Spagna - è la professione di tassista.


E anche questo è paradossale, perché non so se siate mai saliti su un'auto guidata da un sudamericano.
Vi assicuro che la loro guida è molto fantasiosa, nell'ipotesi migliore.
Nell'ipotesi peggiore: un film de paura.
E se la mia è solo la stupida generalizzazione di un caso singolo, sappiate che questo caso adesso fa il tassista a Malaga.

Nerja, una città vicina a Malaga

Come volevo dimostrare: un paradosso.

Il terzo paradosso lo rappresento io personalmente.
Io, che non ho figli o nipoti, e non mi sono occupata dei bambini delle poche amiche che li abbiano avuti - anche perché non me l'hanno mai chiesto.
Che in biblioteca non vengo quasi mai assegnata alla sezione dei ragazzi perché le colleghe sono convinte che io i bambini me li mangio.

Però mi è capitato di scrivere dei testi per i piccoli, che sono stati pubblicati e anche tradotti.

E qualche giorno fa ho avuto la riprova che in Brasile ci sono bambini che imparano a contare anche grazie a me:


E se questo è un paradosso - um dois tres quatro - ne sono felice e me lo tengo.

Boa semana a todos.

Buona settimana!


Silvana




lunedì 13 febbraio 2017

13 febbraio 2017 - Il verdetto

Tutti noi abbiamo - credo - delle abilità, delle capacità che riconosciamo a noi stessi e non mettiamo in discussione. 
Stanno alla base della nostra fiducia nella vita. Ci accompagnano e ci sostengono giorno dopo giorno. Ci danno la sensazione di essere noi stessi, in un modo accettabile.

Ad esempio: le belle donne.
Deve essere un grande conforto sapere di essere bella.
Qualsiasi cosa ti capiti, sai che ci sarà sempre qualcuno a cui piaci.
E poi, vestirsi e truccarsi dev'essere un bel divertimento - immagino...

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La pancia della mia amica più bella (senza togliere niente alle altre)

Io fino a pochi giorni fa pensavo di saper cantare abbastanza bene.
Pensavo di poter ambire a far parte senza problemi di un qualsiasi coro amatoriale di dilettanti.
Non dico "voce solista". Non dico "professionista".


Ma corista sì.

E dunque, dopo aver lasciato il coro del mio paese, che ho frequentato fino all'anno scorso, per la ragione che lì si cantava poco e mi annoiavo molto, mi son data da fare e ne ho cercato un altro.

Io non ho l'auto. Sono costretta a restare nella mia zona.
La mia scelta cade su un coro gospel che, in linea d'aria, è a un paio di chilometri da casa mia.


Non conosco molto il gospel, ma questa può essere l'occasione per cominciare.
Dunque, seguo la trafila.
Li contatto.
Frequento da auditrice un paio di incontri.
Poi un terzo.
Poi, mi sottopongo all'audizione.

Per l'audizione, vorrei sottolineare, mi sono preparata.
"Summertime" me la canto da sempre.

(lo so: non così bene...)

Poi, cerco su youtube un secondo pezzo, e imparo "Swing low sweet chariot" per l'occasione.


E dunque, seduta in mezzo a un ristretto numero di giudici (il maestro del coro, la figlia soprano, e altri membri storici), li canto.
Prima di me si è esibita un'altra candidata: ci mandano insieme nella sala accanto, per aspettare il verdetto.
Riesco a cogliere, tra ciò che viene detto dall'altra parte del divisorio, la frase detta dal maestro: "Non vedo in loro la passione di cantare il gospel".
Poi, tornate nella sala-prove per venire messe a parte del nostro destino


il maestro ribadisce: ma sì, intonate, abbastanza senso del ritmo, ma facciamo moltissimi errori, esclude che si possa imparare a fare di meglio, quindi ci concede un mese prima di ascoltarci una seconda volta, e farci sapere se possiamo starcene a casa nostra o se siamo accettate nel gruppo.

Da quel momento, il mio umore è ondivago.

A volte penso che devo studiare studiare studiare,e imparare molti brani del loro repertorio da sola, dal sito del coro. Giusto per non dare ragione al maestro, e fargli rimangiare quello che mi ha detto.

Altre volte mi dico che se vengo rifiutata, se vengono messe in dubbio le mie capacità di apprendere e appassionarmi - e la mia capacità di cantare - allora sono io a rifiutare il coro.

Stanotte ho trascorso ore della mia insonnia a scrivere una mail di "Tanti saluti".
Ma forse era solo per non dovermi occupare di dolori e problemi molto più pesanti che mi tormentano in questi giorni.

Comunque vada, questo ho imparato, una volta di più: non ci sono certezze che valgano, nella vita.
Puoi pensare di essere amata, e invece sei solo sfruttata.
Puoi pensare di avere una casa - si scatena il terremoto e te la distrugge.
Puoi pensare di saper fare qualcosa, e arriva qualcuno che ti dimostra che no, non è vero, non sei capace, sei scadente.

C'è un possibilità di salvezza e conforto, al di là di tutto questo?

No, non c'è.

Adesso mi preparo un piatto di gnocchi, poi vado al lavoro - finché non mi licenzieranno.

Viva gli gnocchi.
Grazie, Nicoletta, per il pesto. Mi è piaciuto molto.

Buona settimana!


Silvana


lunedì 6 febbraio 2017

6 febbraio 2017 - Due episodi sulla terza età

Il primo episodio vede me come co-protagonista.

Sono per la strada. Marcio come una disperata sotto la pioggia. Ho sulla spalla uno zaino pesantissimo, una mantella che copre zaino e cappotto, e l'ombrello aperto in mano.
Trafelo.
Per ragioni che non so, quando sono di turno al pomeriggio e a casa al mattino, per quanto cerchi di anticipare il momento di uscire per andare al lavoro, sono sempre in ritardo.
Così, in vista della fermata dell'autobus, dopo aver attraversato il parco a piedi, cerco mentalmente di coordinare tempi e impegni: prima di arrivare in biblioteca pranzerò in trattoria. Ma prima di mangiare devo procurarmi l'antinfiammatorio che le mie ossa dolenti anelano. Riuscirò a incrociare una farmacia lungo il cammino? La troverò aperta? Vale la pena provare...
In vista della fermata incrocio degli indigeni. All'apparenza, una coppia di nonni con nipote - un ragazzino di circa sedici anni. I nonni si inguattano lesti in un portone. Il nipote rimane in circolazione, e il suo percorso è parallelo al mio.
Mi avvicino e gli chiedo: "Scusa, sai dove sia una farmacia da queste parti?".
Quello si stringe nelle spalle, si incupisce. Con gli occhi bassi bofonchia: "Lo so, ma non glielo so spiegare", e prosegue andando dove se ne deve andare, con la testa incassata nelle spalle, all'apparenza rancoroso per la propria incapacità.
In piedi alla fermata, faccio i miei calcoli mentali: passa il tempo, sale la fame, si avvicina l'ora di chiusura del mattino...
Vedo passare un'altra indigena. E' una signora di una terza età non avanzata. La fermo, gentilmente chiedo, e quella risponde, indicandomi una strada che si apre sul lato opposto:
"Sì, la farmacia è giù per via Corridoni".
"Ah, ma mi allontana dal percorso, io ho poco tempo..." considero ad alta voce. "Me ne servirebbe piuttosto una sul percorso dell'autobus..."
"In questo caso", ribatte lei, calcolando mentalmente, "Dunque... Un due tre... Scende alla quarta fermata, e se la trova proprio davanti!
"Grazie molte!" faccio io.
"Di niente!", risponde lei sorridendo, contenta di essere stata utile. E prosegue svelta svelta sulla sua strada, andando certamente a lavorare - in senso lato - da qualche altra parte.

(Per la cronaca: ho trovato l'antinfiammatorio, ma nei pressi della trattoria, in una farmacia ancora diversa, che fortunatamente ho trovato aperta).

Il secondo episodio mi vede ancora co-protagonista, spalla di mia madre.
Non siamo delle gran chiacchierone, io e lei.
Col tempo, ho imparato a pazientare quando mi parla di risparmi e carovita, e a portarla su tre argomenti fissi se davvero voglio avere un dialogo con lei.
Questi argomenti sono: i gatti. La spesa al supermercato Esselunga con le sue offerte. I membri della sua famiglia.
L'altro giorno, passo a trovarla dopo il lavoro.
Lei si sta preparando la merenda: tira fuori uno yogurt dal frigo, mette la caffettiera sul fuoco, si rompe una noce.
Io le chiedo se per curiosità ricordi chi fosse il mio bis-bisavolo: avevo appena sentito parlare di un bis-bisavolo in House of Cards, e cercavo raffrontare le distanze, per capirle.
Mia madre comincia a snocciolare nomi e date.
La invito a seguirmi in bagno, perché devo fare una cosa da quelle parti che non posso più rimandare.
Lei viene con me, si siede sul bordo della vasca, e dopo aver rievocato suo nonno Tone, nato un secolo esatto prima di me, non fa a tempo ad arrivare al bis-bisavolo, perché all'improvviso le viene in mente la caffettiera sul fornello acceso e corre (per modo di dire) in cucina.
Io la raggiungo.
Un po' di caffè si è rovesciato sul piano di cottura candido.
La vedo prendere tre biscotti dallo scaffale, e asciugare con quelli il liquido versato.
"Io qui ci lavo anche tre volte al giorno!" mi dice.
"Ma... E il detersivo?"
"Dopo, io risciacquo sempre molto bene!"
"Posso fare una foto ai biscotti?" chiedo io. Erano davvero belli, gonfi di caffè su tutto quel candore"
"No!" fa lei, piccata.
E se li mangia.

Dunque, lo so, non avrei dovuto raccontare questa vicenda in questo contesto. Avrei dovuto rispettare il riserbo di mia madre.
Se ne parlo, è solo per sottolineare l'stremo senso di pulizia, sia esterna che, in un certo senso, interna, che l'episodio mi ha comunicato.
Una pulizia che forse si perderà, con le vecchie generazioni.

Quelle che sapevano dare indicazioni per la strada, e non buttavano mai il pane.
O il caffè.

Buona settimana


Silvana