lunedì 17 settembre 2018

17 settembre 2018 - Cappuccetti Rossi

Se non vivessimo tutti separati, dispersi, nella grande città e oltre, ai quattro angoli del mondo; se potessi avere tutti gli amici e i conoscenti (ma forse sarebbe meglio parlare al femminile) a portata di voce, e di occhi per guardarci in faccia; se il mio tessuto sociale non fosse così virtuale, aereo, effimero e internazionale, incontrandovi ieri, che era domenica, per le strade del villaggio, o del béguinage, o del cortile del mio condominio, vi avrei detto che ero di buon umore.

Perché ieri sono andata all'inaugurazione della mostra dei lavori della scuola d'arte che frequento durante l'anno, e per una volta le ceramiche che ho esposto io































Due cappuccetti rossi. Quello di destra non si vede, ma è dentro il lupo


mi sono piaciute.
E altre persone mi hanno fatto i complimenti (lo so, non dovrei aver bisogno di questo, invece ne ho).
Tanto più che questi Cappuccetti Rossi non li ho proprio copiati-copiati, come faccio in genere, ma sono stati una creazione abbastanza originale.

E poi, alla festa ho bevuto diversi prosecchini, e ho chiacchierato con la mia amica Pittipatti, e poi a casa nel pomeriggio ho visto l'altra mia amica-collega Marisa, e poi ho incrociato la mia amica d'infanzia Dany S. sulla strada di casa, e poi la sera ho finito di vedere il film Ghost che mi era stato consigliato dall'altra amica Felicetta e mi è piaciuto, e non ho passato l'aspirapolvere come faccio sempre, ogni domenica - che insomma è stata una buona domenica.

Detto questo, vi auguro


Buona settimana!


Silvana

lunedì 10 settembre 2018

10 settembre 2018 - Adriana Pellegrini

Per me è sempre una gioia scoprire nuovi autori che mi piacciono.
Quando incontro uno scrittore che sento affine, è come se mi si aprisse un mondo nuovo.
E adoro la prospettiva di poter passare tante ore in buona compagnia, nelle mie giornate, leggendo tutte le sue opere.

Ultimamente, per puro caso ho incrociato questo librino di Monica Dickens, una pronipote del grande Charles.



Non ero ancora arrivata a pagina 50 che già consultavo il catalogo delle biblioteche per programmare le mie prossime letture.

Monica Dickens appartiene alla famiglia delle scrittrici leggere di grande spirito, di cui fa parte anche Stefania Bertola e non so chi altro - perché altre per ora altre così non ne ho scoperte.
Più che autrici, delle vere benefattrici dell'umanità, molto più grandi di Kafka o Oscar Wilde o Pirandello. Io, ad esempio, preferirei leggere 50 romanzi di Stefania Bertola (peccato non ne abbia scritti così tanti) che un solo racconto di Kafka, per il semplice fatto che la Bertola o la Dickens mi mettono di buon umore - e Kafka no.

Dunque, nello specifico: Su e giù per le corsie è un memoir del periodo che Monica trascorse lavorando come infermiera in un ospedale poco lontano da Londra, durante la Seconda Guerra Mondiale. 
Il ritmo, l'auto-ironia, il tono, l'ambientazione inglese e il periodo ne hanno fatto per me una lettura avvincentissima.

(Ad esempio, leggete questo episodio di Monica in sala da ballo. Io mi sono sbellicata)

Certamente, ha contribuito a farmelo apprezzare la bella traduzione, che pur essendo datata - unico segno: i personaggi si danno del voi - sembra risalire all'altroieri.
In effetti, questo "Su e giù per le corsie" è già stato pubblicato in Italia col titolo "Un paio di piedi", nel 1955.
Controllo a catalogo, e vedo che la traduttrice è sempre la stessa, Adriana Pellegrini.

Mi cade l'occhio sulle note dell'edizione attuale, trovo questo appello:


e il sangue mi si gela un po'.

L'impressione è la stessa di quando mi divertivo a leggere le pubblicazioni di matrimonio negli albi pretori dei comuni: pochi dati per immaginare tutta una storia.

E dunque: che cosa è stato di Adriana Pellegrini - una donna dal nome così bello?
Una donna che negli anni '50 già si manteneva da sé traducendo, e lavorava bene.
Io la immagino bionda, grande fumatrice, chiusa in una stanza che dà su un cortile interno, di quelli in cui giocavano i bambini forse ancora col cerchio. Ticchetta su una macchina da scrivere.
Era intelligente, Adriana. Aveva studiato all'Università durante la guerra, aveva vissuto nella Londra che ancora portava i segni dei bombardamenti - forse si era innamorata lassù.
Chissà se ha partecipato al '68... Secondo me sì. E' probabile.

Però era sfortunata in amore.
Non si è fatta una famiglia. E' rimasta sola, senza eredi.

In vita, aveva sempre fatto fatica a mantenersi col suo lavoro... E adesso che la cercano per darle qualche soldino in più, non c'è più nessuno a rispondere all'appello.
Sembra incredibile, oggi che tutti sono in grado di lasciare una traccia in internet - e anzi magari c'è qualcuno che cerca di sparirne.

Ma chi lo sa... 
Magari Adriana ha incontrato un simpaticissimo australiano che faceva parte di una delegazione diplomatica per cui lei ha fatto l'interprete, a Roma, ed è andata a vivere in quella terra bruciata dal sole.

Adesso i suoi discendenti allevano cammelli nel deserto intorno a Perth, e delle traduzioni della nonna non sanno niente di niente.
Tutto quello che gli è rimasto di lei è una ricetta scritta con l'inchiostro azzurro su un foglietto molto ingiallito, ma a Perth fa troppo caldo per mangiare il risotto alla milanese.

E poi, come farebbero a leggerla? 
Non sanno l'italiano.


Buona settimana!

lunedì 3 settembre 2018

3 settembre 2018 - Buon rientro!

Come dicono i francesi: bonne rentrée.

Buon ritorno a casa - speriamo che non siano arrivati i ladri.
Buon ritorno al lavoro. Che non sia troppo pesante e conflittuale. E, soprattutto, che ci sia.
Buon ritorno alla vita di tutti i giorni. Che ogni giorno è comunque un po' speciale.

Per una persona specialissima aggiungo: buon compleanno!

A tutti voi: buona settimana!


Silvana


lunedì 30 luglio 2018

30 luglio 2018 - Francesismi

Come diceva un poster di Lupo Alberto che mi avevano regalato ai tempi del liceo: Più studi, più sai. Più sai, più dimentichi. Più dimentichi meno sai. Allora, chi te lo fa fare?

Col senno di poi, come dargli torto?

E però, in tanto sfacelo, il programma dell'esame di glottologia - il primo che ho sostenuto - mi era piaciuto tanto, e più o meno me lo ricordo ancora adesso.

Ad esempio, la legge di Grassman, detta anche legge della disaspirazione regressiva, ve la potrei illustrare. Non lo faccio perché è un sapere molto specializzato e noioso. Vi rimando a Google, se proprio ne volete sapere di più.

Oggi, glottologicamente parlando, riferirò piuttosto di un prestito.
Un francesismo di mio conio. Una mia invenzione.
L'accrupimento.

Accrupirsi  - dal verbo s'accroupir, francese, che vuol dire acquattarsi, accoccolarsi, accovacciarsi - è quello che faccio io ogni sera, o tutte le volte che mi è possibile, quando mi arrotolo sul divano in posizione fetale. E guardo film e serie tv sul cellulare.

Mi piace avere il cellulare al centro e attorcigliarmici intorno, come le stringhe di liquirizia di quando ero bambina, che si inspiralavano intorno a una pallina di chewing-gum colorata in mezzo.

In questo modo poco ortodosso, recentemente ho guardato la sesta e ultima stagione di Downton Abbey. La prima stagione di I bastardi di Pizzofalcone. 
Sulla prima de Il giovane Montalbano mi sto accrupendo proprio in questi giorni.
Mi sento di consigliarvele tutte.
Anche il film L'arbitro è una chicca sarda che farà contenti parecchi di voi.


Per chi non lo sapesse: non sempre è necessario essere iscritti a Netflix, per accrupirsi bene.
Il programma di raiplay è vastissimo e spesso di prim'ordine. Sono sicura che non tutti ne sono al corrente.
Quindi, se avete pagato il canone Rai, cosa aspettate? Iscrivetevi e accrupitevi anche voi!

Per me, il momento più glorioso dell'accrupimento è quando mi assopisco - fosse anche per dieci minuti - nel sonno da sofà, vertiginoso e ristoratore. Tanto, quello che mi sono persa della storia che gira sul mio cellulare lo posso rivedere il giorno dopo.

Se stessi seduta come qualsiasi essere umano, davanti a un monitor di dimensioni più ortodosse, sarei probabilmente più civilizzata, certo più normale, ma non potrei raggiungere certi sprofondi d'oblio che in passato si potevano raggiungere solo nelle fumerie d'oppio.

Gli unici svantaggi: col caldo di questi giorni, accrupirsi sul divano fa sudare copiosamente.
E lo sforzo continuo su un monitor di dimensioni ridotte affatica la vista - però sto imparando a usare gli occhiali da lettura, per la bisogna.
Reagisco.

Quindi, che dire?
Buon accrupimento!


O, comunque sia, buona settimana!


Silvana

lunedì 23 luglio 2018

23 luglio 2018 - Giustificazioni

Una delle occasioni che mi sono perduta, nella vita, è stata quella di bigiare.
Quando ho compiuto 18 anni, al liceo, finalmente sono diventata libera di firmarmi da me le mie giustificazioni per le assenze.
In effetti, non ne sono stata contenta. Ho pensato che mi ero persa per sempre l'emozione dell'atto ribelle, del batticuore, della falsificazione della firma.

Pazienza. Fossero tutte lì.

Lunedì scorso non ho mandato la mia mail del lunedì.
Al mattino ho perso tempo.
Pensavo di occuparmene nel pomeriggio, al lavoro, come a volte mi capita, ma invece è successo qualcosa, poco prima di uscire di casa che mi ha messo in grande agitazione.
Quindi, se qualcuno mi chiedesse una giustificazione per il mio silenzio (che è passato abbastanza inosservato, devo dire), racconterò.

La mia Titina è stata male.
All'improvviso, si è messa accucciata sulle quattro zampe gorgogliando e starnutendo. Si faceva le fusa da sola per tranquillizzarsi. Non dava retta a nessuna parola di conforto.

Insomma, sono andata in biblioteca, perché dovevo. Da lì ho contattato la mia amica Erica per sapere se, nel caso, mi avrebbe potuto accompagnare dalla veterinaria.
Tornata a casa, Titina non si era ripresa.
E' arrivata Erica.
Siamo andate dalla dottoressa.

La faccio breve: mesi fa ho scritto che Titina è il mio cuore peloso che corre su e giù per il pavimento di casa.
Ebbene, è un cuore che soffre di una malformazione genetica al penultimo stadio di gravità.
E' un cuore in prognosi riservata, che dovrà assumere farmaci fino alla fine.
Un cuoricino condannato.

Da quel giorno di crisi estrema, in effetti, Titina pare si sia ripresa.
Respira quasi liberamente. Ogni tanto gioca. Si fa fare le coccole.
E' sempre bellissima.
Sembra una gattina normale.

Ma io non riesco a guardarla o a pensarla senza provare una tristezza infinita.
Sono entrata in un'ombra che non vuole passare più.

Come sempre, in casi come questi, si cercano responsabili e cause per disgrazie che spiegazioni razionali non hanno.
Così, mi è capitato di pensar male della collega che mi ha convinto ad adottare Titina. 
Se non fosse stato per lei, io oggi non proverei questo ennesimo dolore.
Certo, non poteva sapere che la mia gattina era malata.
Ma col tempo ho capito che questa persona non ha mai provato amicizia o affetto per me. Quindi, non aveva il diritto di impicciarsi della mia vita per il gusto narcisistico di convincere qualcuno a fare qualcosa.
E' un consiglio non richiesto che mi sento di dare a tutti: non date consigli non richiesti a quelli che non amate.
Non intervenite nelle decisioni di persone che, un domani, non avranno motivo per giustificarvi, se si troveranno male.

Sull'altro piatto della bilancia pesa quello che mi ha detto mia madre.
Mia madre, che sta naufragando in un mare di banalità e luoghi comuni - a 87 anni ne ha tutti i diritti - mi ha consolato con un pensiero molto bello.
"Ma Silvana - fa lei - pensa se non ci fossi tu a occuparti della Titina! Pensa se fosse in mezzo a una strada... O se avesse un padrone che non la vuole o non la può curare!"

E dunque, questo mi riprometto: finché il mio cuore peloso batte, io cercherò di farlo stare il meglio possibile.
Poi, probabilmente mi abituerò anche a questa tristezza.

Buona settimana!


Silvana


lunedì 9 luglio 2018

9 luglio 2018 - Argo

Se pensate che la mia biblioteca sia diventata un posto di lavoro ideale, dopo il trasferimento delle colleghe ostili, ricredetevi.
Evidentemente esiste un kharma loci, per cui anche a cambiare gli attori le dinamiche rimangono sempre le stesse.
Insomma: nella mia biblioteca fazioni e faide continuano a esistere.
Amen.

La bella novità, però, è che ultimamente ho potuto occuparmi di attività particolari nella sezione dei ragazzi, che prima per me era zona proibita.
Quindi, insieme ad altre colleghe ho presentato la biblioteca e la villa che ne è la sede ai bambini delle scuole di zona, ho introdotto i piccoli al mondo del libro e della lettura con un gioco "di società", ma soprattutto, insieme a Maddalena ho organizzato e tenuto un laboratorio di poesia.

Ero terrorizzata all'idea, ma una volta arrivato il gran giorno in qualche modo siamo arrivate fino in fondo, e tutte le bambine (hanno partecipato solo femmine, chissà com'è) hanno composto i loro versi.

Quello che ho imparato: ai piccoli non interessa la teoria delle cose, ma la pratica.
Ho introdotto l'attività raccontando qualche rava e qualche fava di quello che è per me la poesia, ma vedevo che i loro sguardi si perdevano nell'esplorazione del soffitto.
In particolare, per dimostrare che la poesia si occupa di ogni ma proprio ogni aspetto della vita, ho letto la storia del cane Argo, gettato come un rifiuto all'entrata del palazzo di Ulisse, re di Itaca.
Omero, dico io, pur preso dalla narrazione di guerre magie e peripezie iperboliche, si ferma un istante e racconta come il vecchio cane abbia resistito fino all'ultimo istante, con l'anima tra i denti, per rivedere il suo vecchio padrone, che conobbe da cucciolo.
E appena lo vede tornare, travestito da mendicante, lo riconosce, lo saluta e muore.


Io, quando leggo questa storia, e anche un po' l'altro giorno, quando l'ho letta alle bambine - loro non è che fossero molto attente, in verità - mi commuovo sempre.

Ma per quanto l'abbia sempre trovata bella, non immaginavo di sperimentarla dal vero, di lì a pochi giorni, incarnata nella mia amica Erica e nel suo gatto Amore.

La mia amica Erica sta vivendo un periodo difficile, con problemi di lavoro e di salute.
Dopo una vita che non andava in vacanza, le si è presentata l'occasione di trascorrere qualche giorno a Ibiza, ospite di una sua amica che in questo periodo sta gestendo un negozio sull'isola. E lei accetta l'invito.
Prima della partenza, Erica porta il suo vecchissimo amico dalla veterinaria, lo cura, gli somministra flebo vitamine e ricostituenti, lo fa arrivare all'ottimo della forma e parte affidandolo a me, che vado regolarmente a dargli le sue pappe e ad accudirlo.

Passano pochi giorni, e il micio comincia a peggiorare.
Mangia sempre di meno, fa fatica a muoversi, non va più sulla cassettina... E' il tracollo.
Io mi spavento. Lo racconto alla mia amica.
Erica cerca di cambiare il biglietto dell'aereo, ma non trova posto da nessuno parte.
Io fino all'ultimo vado da Amore, almeno per fargli leccare un po' d'acqua, con la paura di non trovarlo più in vita.

E invece il micio resiste.
La sua padrona ritorna, e lui riesce a sollevare la testa per salutarla con un miagolio muto.


Tempo qualche ora, e Amore lascia questa terra.
Ieri sera lo abbiamo portato dal veterinario - l'ultimo viaggio - avvolto nell'asciugamano più bello che Erica avesse.

Forse non tutti capiranno.
Non tutti godono della compagnia di un piccolo amico, o ne apprezzano fino in fondo il valore.

Erica ha vissuto 22 anni con il suo Amore.
Perdere un gatto, o un cane, dopo così tanto tempo è come veder scomparire un pezzo della propria vita - però per lo meno lei è riuscita a riabbracciarlo da vivo.

Omero avrebbe raccontato questa storia meglio di me.
Anzi, l'ha già fatto



Buona settimana!

lunedì 2 luglio 2018

2 luglio 2018 - Segni del tempo

Diversi sono i segni che mi indicano che il tempo passa.

Mi sveglio al mattino con le ossa che mi dolgono - ma una famosa battuta dice che questo vuol dire che sono ancora viva.

Ricevo molto spesso su whatsapp il filmato che mi illustra com'era diversa l'infanzia di noi bambini del secolo scorso - e migliore, naturalmente.

Non conosco il cognome di nessun calciatore.
Da bambina li sapevo tutti, perché mio padre li seguiva.
Da giovane ne orecchiavo qualcuno, perché i miei coetanei li nominavano.
Adesso il calcio per me è pura fantascienza.

Un altro inconfutabile segno che tante cose non sono più le stesse: ho cambiato gusti in fatto di mutande.
Mi spiego.

Un paio di mesi fa mia madre mi propone cinque o sei mutandoni bianchi di cotone, nuovi, che lei per qualche ragione non userà.
Io dapprima li rifiuto, scandalizzata.
Poi li prendo, con l'intenzione di portarli in vacanza e gettarli dopo il primo uso, per alleggerire la valigia.
Infine li provo e rimango estasiata: i mutandoni della nonna sono comodissimi! Oramai metto solo quelli... 
O quasi.

Immagine da Google

Una volta, invece... 
Non che fossi maniaca, ma coi vestiti aderenti indossavo i tanga senza problemi, perché era inelegante persino per me, antifashionista di natura, lasciare intravedere il segno degli elastici sotto le stoffe.
E comunque portavo la terza.
E ci stavo pure comoda!


Ma si sa: ogni scarpa diventa scarpone.
Ogni tanga diventa mutandone...
E i miei vecchi slip si sono trasformati in un cilicio.

Dunque, l'altro giorno tornavo a casa dal lavoro in bicicletta insieme alla mia amica Maddalena, e incrociando una signora mia coetanea con chiari segni di mutandone della nonna sotto un vestito di poliestere semiaderente ho dato inizio alla narrazione: "Sai, Maddalena, mia mamma mi aveva proposto tempo fa cinque braghe di cotone bianche..."
All'improvviso mi sono interrotta, perché fortunatamente mi sono resa conto prima di arrivare alla fine di questa storia interessantissima e molto intima che le avevo già raccontato tutto.

Chissà quante volte vi ho già raccontato tutto due o tre volte...
Se non è un segno dei tempi questo!

Comunque sia, buona settimana.
Forse ve l'ho già detto.
Fa niente.


Silvana


lunedì 18 giugno 2018

18 giugno 2018 - Coccole

Racconta spesso mia madre di cosa si prepara per colazione, e cioè: tre biscotti tondi, due quadrati e il caffè.
Ieri sera, al termine della consueta visita della domenica sera, mentre io e mia sorella già eravamo sulla soglia dell'ascensore ha aggiunto un elemento essenziale alla sua narrazione: "...e mi preparo tutto la sera prima, così al mattino trovo tutto già pronto".

In quel momento, mi sono resa conto di quanto sia bella quest'azione che mia mamma fa nei propri confronti: la mia mamma della sera prepara la colazione per la mamma del mattino.
Una coccola a se stessa!
E con questa auto-coccola, è arrivata agli 87 anni.

Dunque, mi chiedo: quali sono le coccole che io faccio a me?
Rispondo:

- Vado dai parrucchieri italiani invece che dai cinesi, sebbene costino cinque o sei volte di più. Mi trovo meglio.
- Mi massaggio il volto ogni mattina e ogni sera con creme di bellezza.
- Vado a mangiare in trattoria quando riesco, anche se mi fa ingrassare non poco, perché così ogni tanto qualcuno cucina per me.
- Faccio sempre l'abbonamento annuale dell'ATM, perché saltare sul primo autobus che passa senza ulteriori problemi è troppo comodo - anche se comprare il biglietto per ogni singolo viaggio in fin dei conti forse mi costerebbe meno.
- A volte, quando sono a letto, mi accarezzo i capelli all'indietro, perché mia madre ogni tanto faceva così, quando ero bambina.
- Se vedo polvere in casa e non ho voglia di fare le pulizie piuttosto leggo un libro.
- Se vedo troppa polvere in casa, pulisco.
- Mangio tutto lo yogurt che mi pare e piace.
- Mangio il gelato solo quando è buono.
- E anche il cioccolato.
- Non esco mai di casa senza profumarmi.

Altro non mi viene in mente.
Le coccole, in fondo, è più facile farle agli altri, soprattutto se appartengono a categorie per definizione piccole tenere e bisognose, come gli animali o i bambini.

La più coccolata di tutte, naturalmente, è la Titina.
Per riuscire a liberarla da tutto il pelo che perde, con questo caldo, cerco di convincerla che la spazzola è solo uno strumento di coccole particolarmente evolute, ma lei cerca lo stesso di morderla.

Questa mail per voi è una coccola?

Magari ci farà vivere più a lungo, come i tre biscotti tondi e i due quadrati.
Chi lo sa?


Buona settimana!


Silvana



lunedì 11 giugno 2018

11 giugno 2018 - Un appello al vostro buon cuore

I traslochi, le grandi pulizie, i lavori di ristrutturazione causano in tutti, immagino, un grande stress.
A parte la fatica fisica, veniamo messi davanti a quello che siamo, nel senso: a quello che abbiamo, cioè alle nostre cose, quelle che abbiamo accumulato nel corso degli anni, per quanto ci rappresentano e ci identificano.

La grande domanda è: ma questo oggetto lo tengo o preferisco liberarmene, perché lo spazio, l'aria libera, è diventato ancora più prezioso?

Per molti anni io ho creduto di essere brava a cucinare, e dunque ho accumulato ricette.
Poi, mi sono resa conto che cucinare in effetti non mi interessa poi tanto.
Molti libri e riviste di cucina li ho regalati a signore più cuoche di me. E tuttavia, voglio ancora bene alla Silvana che sognava di radunare tavolate di commensali intorno a sé.
Quindi, tanti cucinari rimangono sui miei scaffali.

Tanto spazio in casa mia, poi, è occupato dalle scatole.
Mi piacciono quelle di latta, e quando ne trovo una carina mi chiedo: "Perché dovrei negarmela?". E me la prendo.
Poi, ho l'abitudine di fare regalini - anche se ho smesso di confezionare quelle collane all'uncinetto che ho distribuito a destra e a manca e non ho mai visto addosso a nessuna amica. 
Dunque, quando in casa mia entra un oggetto nuovo, può capitare che la confezione rimanga a trascinarsi tra i miei cassetti e i miei armadietti, fino a data da stabilirsi.
E le scatole vuote, come ci si può ben immaginare, occupano tanto, tanto spazio...

Ma il problema più lacerante me lo pongono i piccoli, innocenti, teneri, deliziosi peluches.

Cosa me ne faccio di tutti i peluches che possiedo?


Pochi ne ho comprati, molti li ho ricevuti in regalo, altrettanti li ho salvati da morte certa ai bordi delle strade.
Mi guardano con occhioni di bambino. 


Mi sorridono. Mi ricordano chi me li ha donati. Li ho riuniti in famiglie che mi pare brutto distruggere.


Soprattutto, rappresentano una certa parte di me di cui non mi vergogno, ma che non si è espressa abbastanza.
Però prendono un sacco di polvere.
Occupano un sacco di posto.


Cosa caspiterina ne posso fare?


Ho un'amica che abita non lontano dalla Comunità di Sant'Egidio, e dal suo enorme mercatino di seconda mano.
Vendono di tutto. Ritirano ogni cosa. 
Anche i giocattoli.
Abitassi io da quelle parti, farei il vortice tra Sant'Egidio e casa mia: tanti ne prendo e tanti ne riporto.
Sarebbero comunque opere di bene!

Ma così, senza un centro di carità permanente che mi aiuti a trovare un mio equilibrio, come posso fare?

Vi prego, aiutatemi: adottate un peluche.
Ma solo se saprete amarli davvero.

E se poi vi dico di no, vi do il permesso di insultarmi.
Di tutto cuore.


Buona settimana!


Silvana



lunedì 4 giugno 2018

4 giugno 2018 - Coccodrilli

In biblioteca abbiamo un'abitudine a metà tra il macabro e il meritorio: facciamo i coccodrilli agli Autori, appena scompaiono - intendo dire con questo che allestiamo delle vetrine in cui esponiamo le loro opere.
Così, qualche tempo fa io ho messo in evidenza sull'espositore principale tutto il nostro posseduto di Ermanno Olmi.


Allo stesso modo, pochi giorni prima di andarsene da questa biblioteca, la mia collega Grazia ha allestito un bello spazio dedicato a Philip Roth.
E ha fatto bene, perché dopo la sua scomparsa tutti hanno voluto rendersi conto di quanto fosse davvero bravo e grande, ed è andata in prestito praticamente  tutta la sua opera.
Un romanzo di Roth, nella vita di un lettore, è come Parigi nella vita di una persona: almeno una volta ci devi andare. Pare.



Mi ritorna in mente, a questo proposito, che tempo fa avevo avuto l'idea di allestire uno spazio particolare, in biblioteca: avrei voluto tirare fuori tutti i nostri libri di Roth, però con una dicitura del tipo: "Ecco i romanzi di un grande scrittore che E' ANCORA VIVO! Non siete contenti?"
Però sono stata scoraggiata dai colleghi, e ho lasciato perdere.

A tutt'oggi, non sono convinta che la mia vetrina sarebbe stata peregrina.

L'occasione mi fa pensare alla mia gatta Mitzi, morta nel dicembre del '16.
Una micia che ha vissuto con me per tanti anni, insieme a suo fratello Pepe.
Pepe però era il dominante, e anche piuttosto prepotente con lei: su tutto doveva avere la precedenza, soprattutto nell'affetto della mamma - che ero io.


Quando Pepe è morto, io nel dispiacere mi sono detta che sarebbe stata l'occasione, per lo meno, di avere la Mitzi per me. Di essere tutta per lei, senza ingerenze.
Ma durantei un'estate torrida ho dovuto portare la gattina da mia madre, perché casa mia è caldissima e temevo che da me potesse morire. 
L'altra casa è più fresca, e alla Mitzi stare lì ha giovato. Ma mia madre è stata presa da una sua forma di egoismo senile, e sebbene io fossi sola come un cane, dopo che quella persona mi aveva abbandonato, non mi ha più voluto restituire la mia micia.
Ancora oggi provo un rimpianto insanabile per tutte le ore che non abbiamo passato insieme.

E ricordo anche Marisa, la mia collega scomparsa pochi anni fa.
La conoscevo da una vita, ma solo negli ultimi tempi avevo cominciato a frequentarla, andando insieme a vedere mostre di fotografia.
Il suo male l'ha portata via prima che potessimo diventare davvero amiche, e mi dispiacerà per sempre, perché era simpatica, intelligente, entusiasta e tante altre cose che adesso non ci sono più.

Scriveva Vonnegut: quando siete felici fateci caso.


Quando avete intorno dei vivi, penso io oggi in questo lunedì piovoso, fateci caso ancora di più.
Perché più passa il tempo, più mi rendo conto che non sarà sempre così.

Magari, domani in biblioteca faccio una bella vetrina a Abraham Yehoshua.
Lui è bravissimo, ed è ancora tra noi!




Buona settimana


Silvana



lunedì 28 maggio 2018

28 maggio 2018 - Invece di parlar del tempo

Ieri ho trascorso il pomeriggio con i compagni di coro - fortuna che nella mia vita li ho incontrati.

Tempo fa un soprano, ultima arrivata come me, ci aveva invitato nella sua magione a una decina di chilometri dal Lago di Como; una di quelle case di cui ti chiedi, vedendole dall'esterno, così antiche, caratteristiche e paesane, "Chissà com'è dentro?", e di cui magari non arrivi a immaginare l'eccezionalità e l'interesse, perché dall'esterno, di nordico riserbo, in effetti la magione potrebbe sembrare "normale".

E invece - e il parco verde ed amplissimo, e la varietà di stili ed epoche dei vari immobili, e la sapiente graduazione delle ristrutturazioni, e la carineria del Bed & Breakfast incorporato - insomma tutto l'insieme dell'ambiente ci ha lasciato tendenzialmente trasecolati.
Nessuno ha parlato di espropri proletari. L'epoca non è più quella.
Siamo stati invidiosi?
Chi lo sa.
Ciascuno parli per sé.


Io di me dico: cerco di non essere invidiosa. 
L'invidia è un sentimento che trovo sempre negativo, o piuttosto nefasto, anche le rare volte che ho sospettato di ispirarla.
Tanto meno mi capita di invidiare i possessi materiali, visto che nella vita non mi è mancato quasi niente - se non le lezioni di musica quando ero bambina, ma quelle non le avrei avute nemmeno se fossimo stati ricchi.
Certo, ieri pomeriggio, e le rare volte che salgo verso Bergamo alta a piedi, passando tra palazzi che immagino materialmente felici (perché proprio quelle strade mi ispirano questi pensieri? Forse in una vita precedente sono stata serva di ricchi bergamaschi?), non ho potuto fare a meno di considerare l'insondabilità del Caso, che getta alcuni in un'antica filanda storica nei dintorni di Como, e tanti altri nel Burkina Fasu.

Aggiungo poi che trascorro molto tempo in una antica villa nobiliare - la sede della biblioteca dove lavoro - e che quindi non mi manca la presenza quotidiana in ambienti prestigiosi, dove tra l'altro tutti, al giorno d'oggi, possono liberamente entrare, perché la villa appartiene alla comunità - che cosa fantastica, qui nessuno è servo!

E dunque, che cosa invidio io, quando proprio non riesco a farne a meno?
Innanzitutto, i denti belli e sani, perché io dai miei ho avuto solo problemi.


Poi, il privilegio di non svegliarsi da soli, ogni mattina.
La terza invidia non me la ricordo. Quindi, potrei dire di invidiare chi ha buona memoria, che nella vita mi avrebbe molto facilitato, e adesso ne sento sempre di più la mancanza.

Per concludere: se fossi stata inglese, in mancanza d'altro questo lunedì avrei parlato del tempo.
Invece, ho detto quattro sciocchezze su uno dei vizi capitali.


Buona settimana!



Silvana

lunedì 21 maggio 2018

21 maggio 2018 - Tre finestre. O quasi

Nei giorni scorsi sono stata a Roma, ospite dell'altra me stessa.

Roma è una di quelle città la cui conoscenza, ad ogni visita, si arricchisce di elementi nuovi, di aspetti mai notati prima.

Questa conoscenza non arriverà mai alla perfezione.
Roma è troppo grande, non si può esaurire, e saperlo mi conforta, perché vuol dire che lì, a Roma, vedrò sempre qualcosa di nuovo, e di conseguenza potrò ospitare pensieri e sensazioni ancora sconosciuti.

Lasciando le strade inondate di luce, nei giorni scorsi, - luce di mare, dice Carlo, il mio ospite, gialla e piena - per entrare nell'ombra delle chiese o dei musei, sono stata sorpresa diverse volte dall'abbagliamento tutto dei miei occhi, personale, che mi accecava per qualche istante, prima che mi adattassi al buio improvviso.
In quell'attimo di passaggio non ero né all'interno né all'esterno. Né aperta né chiusa. Né cieca né vedente.
Ero come una finestra.

Dunque, vi mostrerò tre immagini di finestre - anzi, di punti di passaggio tra dentro e fuori. O tra luce e ombra. O tra prima e dopo.

La numero uno è buffa.



Questo signore, nel chiostro del Bramante, si è affacciato sul lato opposto al mio e si è messo a guardarmi.
L'ho fatto anch'io, e lui non ha smesso di fissarmi.
L'ho fotografato, e lui comunque non ha rivolto gli occhi altrove.
Neanche un'ombra di nordica discrezione.
Piuttosto, un po' di riprovazione. Per cosa, poi? Chissà.
Ma che omino curioso!

La seconda è una visione molto caratteristica della capitale, che è città di preti e frati, attraversata in su e in giù da tonache vesti e sai.
Per i romani sarà normale, molto meno per me, che ogni tanto mi soffermo a osservare questa fauna folcloristica di vecchi e giovani, neri e biondi, alti bassi magri grassi, dalle facce che immagineresti benissimo in altri contesti - su una moto, dietro al bancone di una salumeria, in cima a una gru - ma mai sopra un rigido colletto bianco.
E dunque, in cima alla Scala Santa di San Giovanni in Laterano (no, non l'ho fatta in ginocchio) ho visto questa silhouette nera su fondo giallo.
Un prete seduto nel confessionale, in attesa del suo penitente.


La terza foto non è mia e non ve la posso mostrare.
Al di là di una cortina di perline, di quelle che si usavano una volta all'ingresso delle case che davano sulla strada, o sui balconi, si intravede una vecchia signora di spalle, che guarda nel vuoto, dal piano alto di un palazzo circondato da altri palazzi moderni, molto alti.

E' la mamma della mia amica. 
Immaginatela con gli occhi della mente.
E' molto bella, ne vale la pena.


Buona settimana!


Silvana