lunedì 22 gennaio 2018

22 gennaio 2018 - Che coincidenza!

Nella mia carriera di lettrice, mi è capitato piuttosto spesso di imbattermi in pensieri che avevo pensato anch'io, prima di prendere in mano il libro in cui li ho trovati.

E così, proprio come Stefano Benni sono stata colpita dalla consapevolezza che tutto quello che facciamo, lo facciamo un numero finito di volte.
Prendere il caffè, guardare l'alba, salire sulla 90: prima di morire ci capiterà, ammettiamo, 6271 volte. E ogni volta è una volta di meno.

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Che sia stato su questo libro qui?

E in un romanzo di un autore ungherese che chi sia non so più

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Forse Ferenc Kormendy?

ho letto, riportata pari pari, la mia personalissima opinione, che ciascuno di noi raggiunge la piena rappresentazione di se stesso ad un'età diversa. Alcuni sono ottimi vecchietti, altri sono nati per fiorire a 32 anni, altri ancora raggiungono la perfezione di se stessi da bambini, e poi più.

Questo rispecchiarmi negli autori a volte mi fa sentire intelligente.
Altre volte mi dico: "Caspita, ma non potevo essere capace io di creare tutto un romanzo intorno a questa meditazione?".
Adesso, trovo che il fenomeno sia del tutto naturale, e immagino che sia capitato mille volte a tanti altri lettori.
Questo perché gli scrittori, secondo me, sono persone esattamente come noi, ma con delle capacità tecniche in più.
Se non fosse così, non ci rappresenterebbero. E non li seguiremmo.

Tra le mie letture del momento figura "Nella casa del pianista", il romanzo che l'ottimo Jan Brokken dedica all'amico Jurij Egorov, grande pianista ormai scomparso.



Per la prima volta, non è un mio pensiero che trovo espresso dalla penna di uno scrittore, ma un episodio intero, da me inventato qualche anno fa nella mia breve stagione di autrice.

Jan Brokken racconta di un'esibizione di Egorov a Salisbury: salito sul palcoscenico per provare lo Steinway affittato apposta per lui dall'organizzazione, poco prima del concerto scopre che il tasto del mi bemolle è rotto.
Apriti cielo!
Ma per fortuna, l'accordatore riesce a riparare il danno in tempo, e tutto prosegue a meraviglia, con grande successo del pianista e soddisfazione artistica di tutti.

Qui sotto vi propongo la mia versione della stessa, identica storia.
Guarda tu che coincidenza!

Il pianista
Nascosta nell’ombra, in fondo al Teatro dell’Opera, Antonella si stringeva al manico dello spazzolone e ascoltava rapita la musica che proveniva dal palcoscenico. Il maestro Arturo Passacaglia, seduto al suo magnifico pianoforte nerissimo e lucido, alla luce di mille fari provava i brani che di lì a due giorni avrebbe suonato davanti alle personalità più in vista del paese, in un concerto che si preannunciava trionfale.
“Come fanno a dire che è brutto?”, si chiedeva Antonella, ammirando l’espressione rapita del viso lungo e magro, i capelli ricci e radi che, come una nuvola sfilacciata, circondavano la venerabile testa e ne sottolineavano ogni movimento, le gambe interminabili, ripiegate sotto il pianoforte a schiacciare nervosamente i pedali, e poi le mani, le celeberrime mani, che volavano sulla tastiera come colombe, come enormi ragni bianchissimi, e ne strappavano una musica divina.
“Su, forza, Antonella, sveglia!”, la richiamò sulla terra una collega, dandole una pacca sul sedere. “Se il Presidente trova una carta di caramella sotto la poltroncina, sai cosa salta fuori… E smettila di guardare il pianista con gli occhi di triglia, tanto quello non saprà mai neanche che esisti!”
“Ma poi, te lo sei visto bene?”, aggiunse una terza ragazza, allungando un piumino verso il palcoscenico. “Sembra un incrocio tra una giraffa e uno struzzo! Tutti i gusti son gusti, ma io uno così non lo voglio neanche se è l’ultimo uomo sulla faccia della terra. E poi, guarda che mani! Sembrano quelle del mio ginecologo. Ah, che impressione!”. E le due si allontanarono, storcendo la bocca con raccapriccio.
Antonella sorrise, compiaciuta dell’esclusività del suo amore.
“Pst! Ehi!”, si sentì chiamare all’improvviso da un vocino sottile sottile. La ragazza abbassò lo sguardo e, stretto contro il battiscopa, vide Gustavo, il vecchio topo miope che viveva nel teatro, il migliore amico che avesse lì dentro. Chinatasi, lo prese delicatamente nel palmo della mano e se lo nascose su una spalla, tra il maglione e il camice da lavoro, prima di riprendere a fare le pulizie.
“Allora, sei riuscita a conoscere il Maestro?”, le chiese Gustavo. “Guarda che dopo il concerto non avrai più occasione di vederlo: quello parte, va in giro per il mondo a esibirsi, e chissà quando torna nella nostra città… Ce l’hai, un piano?”
Come si è capito, la ragazza aveva il dono di comprendere il linguaggio degli animali, che però aveva sempre avuto cura di tenere ben nascosto poiché temeva di essere segnata a dito come una pazza, o come un fenomeno da baraccone. D’altra parte, Antonella era consapevole di portare un segno di distinzione assoluta, e aspettava solo di condividerlo con la persona giusta.
Qui entrava in scena il Maestro Passacaglia: era lui l’uomo predestinato a comprendere e amare l’anima di Antonella. Lei ne era convinta, glielo diceva il cuore. Tutto stava nell’avvicinarlo una prima volta.
“Se ho un piano… No, non ce l’ho! Non ci ho pensato, non ne ho avuto il tempo. Tanto, sono sicura che prima o poi riuscirò a conoscerlo…” rispose la ragazza al topo, mentre passava lo straccio bagnato sul pavimento dell’atrio.
“Sicura, sicura…”, ribatté Gustavo, “Qui, se non aiuti il destino, puoi farti vecchia con lo spazzolone in mano, e il tuo strimpellatore te lo rivedi solo in sogno! Dammi retta, adesso te lo dico io cosa faremo. Lo sai che Gustavo è mezzo cieco, ma ha una testa che funziona, e ti consiglia sempre bene…”
“Certo che lo so, di te mi fido, figuriamoci! Che cosa mi suggerisci di fare?”, chiese Antonella accostando la guancia al musetto dell’amico, mentre strizzava lo straccio nel secchio.
“Dunque, domani c’è la prova generale davanti ai dirigenti del teatro e a qualche altro pezzo grosso, no?”
“Sì, mi pare di sì. È anche quello un piccolo avvenimento, un anticipo della grande serata di dopodomani, mi pare…”
“Bravissima. E lo sai che succederà?”
“No, non lo so. Dimmelo tu.”
Gustavo gongolava soddisfatto. “Tu salverai il Maestro, il teatro, tutto quanto! Arturo Passacaglia ti sarà riconoscente, noterà il tuo grande cuore e si innamorerà di te!” Poi, accostandosi all’orecchio di Antonella e abbassando ulteriormente la voce, come se ce ne fosse bisogno, cominciò a bisbigliare il suo piano di battaglia.

Le signore erano farfalle rivestite di colori tenui, modesti, primaverili. I signori, invece, erano neri come scarafaggi.
La prova generale del concerto era un evento sociale poco meno importante della prima. Ufficioso, certo, e con pretese di disinvoltura, per cui di frac e di scollature ardite non se ne vedevano, ma naturalmente nessuno si sarebbe presentato in camice da lavoro coi bottoni davanti, come Antonella.
Accomodati nelle prime due o tre file, ecco il direttore del teatro, il responsabile artistico, il tesoriere, il sindaco, un paio di assessori, il ministro della cultura e diversi altri personaggi illustri, tutti con relativa accompagnatrice al fianco.
Antonella, come suo solito, era in piedi nell’ombra, verso il fondo della sala.
Quando fu l’ora, calarono le luci, il brusio tacque e tutti gli sguardi si puntarono sul palcoscenico.
Nel cerchio di luce di un potentissimo faro, il Maestro Arturo Passacaglia fece il suo ingresso in scena, avanzò sgambando come un trampoliere fino alla ribalta, mise la mano sulla pancetta tonda e si inchinò a salutare i presenti, che applaudirono con misurato entusiasmo. Quindi, il Maestro raggiunse il suo amato pianoforte. Buttò indietro le code del frac, si accomodò sul seggiolino, si rialzò per regolarne l’altezza, si risedette, sollevò il coperchio della tastiera, sistemò gli spartiti sul leggio, tossicchiò piano nel pugno, tenne sospese qualche istante sulla tastiera le sue mani grandi come albatri e poi abbassò otto dita per attaccare il primo accordo.
Subito, il Maestro Passacaglia si immobilizzò, aprì la bocca, impallidì. Un’espressione esterrefatta si dipinse sul suo volto lungo e magro. Alzò lo sguardo vuoto sul pubblico, tornò a guardare i tasti e con voce bassa e incolore, scuotendo i ricci grigiastri disse:
“Non posso suonare. Non posso, non posso…”
Col cenno di una mano, il direttore del teatro fece riaccendere le luci, poi si schiarì la voce e con tono controllato e circospetto chiese:
“Qualcosa non va, Maestro?”
Il pianista, continuando a fissare la tastiera, ripeté a voce un po’ più alta:
“Non posso, non posso… Questo pianoforte non va, non capisco, non posso suonare…”
Il direttore artistico represse un sospiro di esasperazione e replicò, con il tono che si usa coi bambini piccoli:
“Maestro, guardi che il pianoforte è il suo, è quello di sempre, e fino a ieri andava bene. Verso sera è anche venuto l’accordatore a controllarlo, il migliore del paese, era presente anche lei, si ricorda?”
“Indubbiamente ricordo, ancora non sono stato colpito dal morbo di Alzheimer”, rispose Passacaglia sollevando lo sguardo sui suoi interlocutori, esasperato, “Cionondimeno, al mio pianoforte è accaduto qualcosa. Emette suoni orribili, e io mi rifiuto di toccarlo, foss’anche con un’unghia!”. Quindi, raccolti gli spartiti, abbassò il coperchio e s’alzò.
Il direttore del teatro, sospirando a fior di labbra, si alzò con fare energico, salì veloce le scalette che portavano al palcoscenico, si avvicinò allo strumento e cominciò a picchiettarlo con le nocche sui fianchi, sul coperchio, persino sulle gambe.
“Ecco, vede, Maestro? Va tutto bene , è tutto normale…”
Passacaglia era sull’orlo di una crisi di nervi. “Ma come si permette, lei? Mi prende per uno stupido?”, gridò, avvicinandosi al direttore e allontanandone il braccio dal pianoforte quasi con violenza.
Le altre personalità erano già pronte a intervenire per salvare la situazione, ma non ve ne fu bisogno: dal fondo del teatro si levò una vocina sottile che diceva:
“Signori, con permesso, io so come risolvere il vostro problema…”
Tutti si voltarono, incuriositi, e dall’ombra videro emergere una ragazza piccola piccola, magrolina, con il naso sottile e capelli che le ricadevano a riccioli sulle spalle. Indossava il camice azzurrino delle donne delle pulizie.
Nessuno si prese la briga di rispondere, allora, prima di sentir venire meno il coraggio, Antonella si scrocchiò le dita, a passi piccoli e veloci attraversò il teatro e salì sul palcoscenico. Passò davanti al Maestro mormorando “Permette?”, si avvicinò allo strumento e, prima che la potessero fermare, sganciò una sicura e sollevò il coperchio della cassa di risonanza.
Gustavo, veloce come un fulmine, saltò fuori dal pianoforte e filò a nascondersi in un buco del muro.
Quando lo vide in salvo, la ragazza disse, trionfante: “Quel topo si era nascosto qui dentro; per questo il suono risultava distorto…”
Tutt’intorno fu un risuonare di “Oh!” e “Ah!” di sorpresa. Qualche signora emise gridolini d’orrore, il direttore proruppe: ”Chiamate subito la disinfestazione!”, vi fu persino chi applaudì a Antonella.
Arturo Passacaglia, da parte sua, si avvicinò sorridendo alla ragazza, le afferrò le mani piccole e ruvide, se le portò al cuore e disse, scuotendo con riconoscenza i riccioli:
“Solo lei, signorina, poteva salvarmi!”. Antonella non riusciva a respirare dall’emozione, pendeva dalle labbra del Maestro. “Sì, sì, solo lei poteva salvarmi. Lei che sola, qui dentro, si intende di sporcizia!”
La ragazza rimase stordita, come quando si riceve un colpo in testa. Ma dopo un istante si riscosse, con decisione liberò le mani da quelle enormi, sudate e fredde del pianista e, senza dire una parola, svelta svelta sparì negli oscuri meandri del teatro.

Quando tutti se ne furono andati, Antonella tornò nel buio della sala armata di torcia elettrica, e si mise a cercare il suo amico.
“Gustavo! Gustavo!”, bisbigliava, facendo scorrere il fascio di luce lungo i battiscopa. Finalmente, un musetto vibrante e baffuto emerse da un nascondiglio invisibile.
“Sono qui! Allora, gli hai parlato? Com’è andata? Tutto bene?”, le domandò ansioso il topo, stringendo gli occhietti lucidi e neri, quasi ciechi, alla luce della torcia.
“Tutto bene, tutto bene…” rispose ironica la ragazza, mentre si chinava a prendere l’amico nel palmo della mano. “Ti invito a casa mia per qualche giorno, Gustavo. Resterai da me fino a che qui dentro si saranno calmate le acque. Poi vedremo…”
“Ma tu non hai un gatto?”, chiese il topo, allarmato.
“Sì, anzi, ne ho due. Ma non preoccuparti, loro fanno quello che dico io”, rispose l’altra, mentre si faceva scivolare Gustavo tra la sciarpa e la gola.
“Ah, bene. In questo caso…”, fece lui, non troppo convinto. Poi riprese: “Ma dimmi, com’è andata col Maestro? Non farmi morire di curiosità…”
Antonella sospirò e disse: “È andata come doveva andare. Può capitare anche di prendere degli abbagli, nella vita. Ma sono stata fortunata: pensa a quanto tempo ho risparmiato, grazie a te. Se non mi fossi accorta subito che era un cretino…” Rabbrividendo al pensiero di un ipotetico futuro dedicato a un essere indegno, face un cenno di saluto al custode del teatro e uscì in strada.
“Però, Gustavo…” riprese a dire, improvvisamente contenta, respirando profondamente l’aria fredda della notte: “Pensa come sarà bello, quando avrò incontrato la persona giusta…”
Sorridendo, sfregò la guancia contro il muso del suo amico, aprì la portiera della sua automobilina e veloce come un fulmine tornò a casa.

La mia storia non sarà mai pubblicata, ma per fortuna ho voi, che la leggerete.
Credo...

Ad ogni buon conto, buona settimana!

Silvana



P.S.: La mia amica Patrizia - un'altra coincidenza! - proprio ieri mi ha mandato questo bel filmato.
Quanti pianisti, a questo mondo!

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